Mondo

Zuckerberg dall’io al noi

Mario Giro, politico e saggista, analizza il discorso d’addio ai laureandi 2017 di Harvard del fondatore di Facebook

di Redazione

Mark Zuckerberg ha pronunciato il discorso d’addio ai laureandi 2017 di Harvard. È una tradizione tutta anglosassone quella di affidare tale commiato a personalità del momento, con una cerimonia che vuole essere un rito di passaggio all’età adulta. Tutti ci ricordiamo lo “stay hungry, stay foolish” di Steve Jobs alla Stanford nel 2005. Era un invito a lasciarsi guidare dall’intuito, dal cuore, da se stessi. Dodici anni dopo un altro guru dei social media e della tecnologia smart, cambia paradigma. “Noi della generazione Y cerchiamo di dare un senso alla vita istintivamente…” inizia Zuckerberg ricalcando Jobs, “ma –aggiunge- non basta trovare un senso alla propria vita. La sfida per la nostra generazione è di creare un mondo in cui ciascuno trovi la sua ragione d’essere”.

Exit l’individualismo spinto della generazione delle start up? Forse. Certo è che Zuckerberg si rende conto che qualcosa non va. Le accuse rivolte a Facebook di contribuire all’universo oscuro delle fake news, alla cannibalizzazione dei media cartacei e –molto più grave- al jihadismo o al bullismo via rete e ai suicidi adolescenziali etc., sembrano aver lasciato un segno. “Il tempo è giunto –continua- per identificare gli impegni che definiranno la nostra generazione” e fa come esempi quelli del cambiamento climatico, delle vaccinazioni e della prevenzione delle malattie, dell’insegnamento per tutti via internet; della democrazia.

Sembra esser tornati indietro: basta egocentrismo tecnologico, basta chiudersi in un garage a scoprire l’ultimo prodotto senza sapere a cosa porterà, basta solipsismo creativo. È il tempo della responsabilità globale e umana: “ridefinire l’uguaglianza delle opportunità” per tutti. Un sogno Onusiano, si direbbe.

L’utilizzo del termine “impegno” è già una novità: Zuckerberg parla di diseguaglianze, di reti sociali, e soprattutto di “fortuna”. Ascoltate questo: “sappiamo tutti che non basta aver una buona idea o lavorare duramente per riuscire. La riuscita è anche legata alla fortuna… onestamente noi sappiamo tutti qui che abbiamo avuto fortuna”.

Certo: fortuna di nascere dal lato buono della terra, di aver potuto frequentare buone scuole, di aver avuto i mezzi etc. Rinasce la consapevolezza di essere dei privilegiati, più che dei geni; la coscienza che l’opportunità offerta dalla tecnologia non è la stessa per tutti, anzi: può scavare abissi.

Così Zuckerberg arriva a dire: “date due ore a settimana del vostro tempo per aiutare gli altri”. Volontariato? Gratuità? Papa Francesco è stato ascoltato fin dentro uno dei templi della competitività di eccellenza? Sarebbe bello.

Nel suo discorso Zuckerberg difende la solidarietà internazionale e si schiera contro ogni isolazionismo, autoritarismo e nazionalismo. Utilizzando termini che parevano invecchiati, il fondatore di facebook ridà voce a ciò che negli ultimi anni è stato tacciato di “buonismo” o ingenuità. Con buona pace dei “cattivisti” nostrani e di quelli a tutte le latitudini, chiama la sua generazione a impegnarsi per gli altri, a superare le frontiere concrete (non solo quelle virtuali), a sporcarsi le mani con chi è rimasto indietro.

La corsa a perdifiato della tecnologia trova così il suo limite: l’umano. Senza l’uomo, senza le persone concrete portatrici ciascuna della propria storia, il mondo va in rovina. Prima la vita, si potrebbe dire, poi il resto. E la vita, si sa, non assomiglia a un laboratorio di start up: è sporca della polvere delle strade degli uomini e delle donne, delle speranze, attese e angosce di tutti.


Da huffingtonpost.it del 1 guigno 2017

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