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Zoo umani: in Europa torna il razzismo espositivo
Donne e uomini di colore in catene, esposti e umiliati dentro gabbie, alla maniera degli "zoo umani" del XIX secolo. Succede in queste ore a Saint-Denis, in Francia, dove l'artista sudafricano bianco, Brett Bailey ha messo in scena il suo Exhibit B. Il lavoro di Bailey - che ora grida alla censura - ha suscitato l'ira di comitati e associazioni antirazziste, "è solo razzismo 2.0, poco radical e molto chic, è un nuovo paternalismo di Stato", dicono
di Marco Dotti
Brett Bailey è un artista sudafricano bianco e questo è un primo punto della questione. Il secondo punto è che questo coreografo e performer, sudafricano e bianco, nato alla fine degli anni Sessanta, dirige una compagnia, Third Wolrd Bunfigh, con la quale ha partecipato ai principali festival europei (e non) di teatro portando in scena Exhibit A e Exhibit B, mentre Exhibit C è annunciata per il 2015.
Regole per un parco umano
Le performance di Bailey sono la riproposizione, in chiave postmoderna, dei più che moderni zoo umani, istituzioni che per lungo tempo hanno rappresentato uno dei tanti aspetti del paternalismo razziale europeo.
Che cos'è una zoo umano? Sorti sul finire del XIX secolo, come "esigenza" di esporre, accanto a merci, beni e spezie, anche donne, bambini e uomini provenienti dall'Africa "selvaggia", gli zoo umani sono stati una variante delle grandi Esposizioni Coloniali, mischiate a elementi del circo e degli spettacoli "freaks", che esibivano disabili e mutilati come merce umana esostica buona per tutti gli usi: indignazione, commozione, rassegnazione.
Come tali, gli zoo umani hanno goduto di un crescente consenso, fino a spegnersi definitivamente in concomitanza con lo scoppio della Seconda guerra mondiale. Gli zoo umani hanno messo in mostra nelle principali capitale europee bestie e uomini provenienti dalle colonie, chiusi nelle stesse gabbie, ad uso dello sguardo di chi – l'espressione è tratta da un dépliant d'epoca – "non ha mai visto un leone o un negro" e cerca(va) un'occasione spettacolare per mettere alla prova la propria (ça va sans dire: "superiore") umanità.
Gli zoo umani sono stati un elemento fondamentale per la costruzione di quell'ideologia della razza che, a parole, oggi tutti rigettano, salvo poi non cogliere che l'immagine – la politica dell'immagine – ha una sua valenza non secondaria nel rinnovare sottotraccia e sotto mentite spoglie proprio quell'ideologia. "Nessuna immagine è innocente", afferma infatti uno dei più attenti e vigili tra gli artisti contemporanei, Alfredo Jaar.
Il terzo punto, e qui sta l'inghippo, è che le comunità di colore, organizzatesi in un Collectif contre Exhibit B, composto da militanti antirazzisti e artisti come Joëlle Esso, non sembrano propense a cogliere nel lavoro di Bailey quella carica antirazzista e di libertà comune scandita invece a piena voce dal regista e dai suoi finanziatori.
L'avanzata del nuovo parternalismo
“È sorprendente che nei quartieri multietnici a nord di Parigi si inviti la popolazione a venire a imparare che cosa sia il razzismo guardando l’opera di un bianco sudafricano, finanziato con soldi pubblici”.
La denuncia dei contestatori va dunque a ciò che, dietro il paravento apparentemente neutro o apparentemente schierato dell'arte, sembra celarsi: un nuovo paternalismo, non più "radical", ma semplicemente "chic".
L'arte – una certa arte – sarebbe dunque la miserabile foglia di fico posta sulle miserie di un razzismo strutturale, endemico e eretto a sistema, che colpisce in forma sempre più diretta e sempre più istituzionalizzata proprio coloro che dovrebbero, nelle intenzioni di Bailey, essere "sensibilizzati".
"Ciò che viene fatto su di noi, senza di noi, è contro di noi" – si legge su uno degli striscioni esposti ieri dai manifestanti.
"No al paternalismo", si legge invece su un cartello abbandonato per strada.
"Non sono un oggetto". Ancora: "riprodurre è diverso da criticare".
Exhibit A, B e C: si tratta di tre lavori dalle intenzioni esplicitamente antirazziste, ma che ovunque stanno suscitando dubbi e indignazione. L'ultima, con centiniaia di manifestanti, è andata in scena ieri, a Parigi, dopo che nel settembre scorso era Exhibit B era stato annullata a Londra.
Exhibit B espone – letteralmente, trattandosi di tableaux vivants – donne e uomini di colore legati, incatenati, imbavagliati e messi in gabbie dentro le quali gli spettatori sono invitati a passare. Lo zoo è aperto a tutti, anche ai minori, ed è gratuito per i minori di 15 anni.
The show must go on
"Lo show deve continuare", ha affermato l'artista sudafricano (►qui la sua intervista). Questti quadri viventi, a detta di Bailey, sarebbero l'immagine in negativo del disastro postcoloniale e non la sua – nemmeno involontaria – continuazione.
Per i suoi contestatori, invece, si tratta solo di una performace con figuranti sottopagati, emblema di un nuovo, ricorrente sfruttamento materiale, che si aggiunge allo sfruttamento simbolico dell'immagine dei loro antenati.
I contestatori ribaltano la questione e si chiedono se, dietro le maschere delle buone intenzioni e dietro il mediocre paravento della libertà artistica, non si riproduca de facto proprio l'immagine, diversamente spettacolarizzata e messa a valore, che gli zoo umani veicolavano.
Chi è antirazzista, dunque? L'artista bianco antirazzista o i neri che, al grido "difendiamo la dignità dei nostri antenati", si vedono ancora una volta rappresentati loro malgrado in "posizioni e ambienti umanamente degradati e degradanti"?
Soldi pubblici, libertà private
Dinanzi a Exhibit B che, dopo minacce e interruzioni, fino al 14 dicembre prossimo farà mostra di sé al Teatro Gérard-Philipe, più che una rinnovata presa di coscienza, sembra essersi prodotto un cortocircuito tra mezzo e messaggio, che non può essere declinato solo in termini di libertà o censura artistica. “Non, l'argent public ne doit pas financer un zoo humain!” – si legge nel comunicato del Collettivo che si oppone alla performance. Soldi pubblici, per (supposte) libertà private: questo è un altro punto da non dimenticare.
Questo spettacolo, ha affermato lo storico Dieudonné Gnammanko, presidente dell'associazione Dumas-Pouchkine, mostra la mercificazione e la riduzione a cose delle vittime.
“È solo razzismo mascherato e un modo per far soldi solla sofferenza delle vittime”. Gnammanko rincara poi la dose: “siamo arrivati allo stadio dove possiamo permetterci qualsiasi cosa, in nome di una sedicente libertà di espressione e di creatività?”
Ancora più duro il commento di Franco Lollia, della Brigade anti-négrophobie, ha rincarato la dose affermando che “non si tratta di un razzismo involontario, ma mascherato e invisibile, che mostra i neri e la loro storia come sempre si è fatto: in posizione di umiliazione e sottomissione.
Questa performace continua la logica delle esposizioni coloniali di un tempo, abituando la gente a vedere i neri in una postura che non rompe affatto con certi pregiudizi. Non siamo contrari in linea generale al fatto che un bianco parli della memoria dei neri, ma siamo contro questa visione parziale della storia che non mostra il volto dei neri che si sono opposti, né quello dei criminali, degli schiavisti e dei coloni".
Mentre il suo collettivo annuncia azioni legali contro l'esibizione, Lollia conclude: "le buone intenzioni non servono a nulla e Brett Bailey può avere tutte le buone intenzioni del mondo", ma se le buone intenzioni non la fanno finita "con questa posizione neocoloniale, di fatto la perpetuano e se ne rendono strumento”.
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@oilforbook
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