Robert Mugabe dunque non molla lo scettro. E l’opposizione di Morgan Tsvangirai lo accusa di aver fatto carte false per essere rieletto dopo trentatre anni di potere assoluto nello Zimbabwe. Dunque, elezioni, quelle di mercoledì scorso, non credibili, secondo il leader del Movimento per il cambiamento democratico (Mdc), che per l’ennesima volta ha lamentato d’essere stato penalizzato da una monumentale frode elettorale. In effetti, secondo autorevoli fonti della società civile, nelle aree urbane, alcuni elettori sarebbero stati privati del diritto di voto. Ancora una volta, dunque, lo Zimbabwe, grazie a Mugabe, continua ad essere in bilico tra monarchia e repubblica, un po’ come i Cesari che ritenevano il Senato di Roma una sorta di salotto dell’impero. Incapace di realizzare una riforma agraria degna di questo nome, Mugabe ha utilizzato in questi anni la strategia degli espropri contro gli ex latifondisti bianchi – dicono i suoi detrattori – per poi svendere ai cinesi e ad altri mercanti di pepite le immense risorse del sottosuolo. Questo dinosauro della politica africana, in effetti, rappresenta l’anello di congiunzione tra la prima generazione, ormai defunta, dei “presidenti padroni” africani – del calibro del congolese Mobutu Sese Seko, del gabonese Omar Bongo, o del togolese Eyadéma Gnassingbé – e quelli della seconda, ancora al potere, come l’ugandese Yoweri Museveni, il camerunese Paul Biya o l’eritreo Isaias Afewerki. Purtroppo, nonostante gli altisonanti proclami in campagna elettorale, questi signori sono rimasti, come Mugabe, quasi sempre nella stanza dei bottoni. E dire che da oltre un ventennio, nei circoli della società civile, si parla del possibile riscatto africano, in riferimento all’orgoglio di un continente che, nelle sue molteplici espressioni – sociale, politica, economica e religiosa – avverte il bisogno di voltare decisamente pagina. E come in una sorta di gioco degli specchi, le risposte opposte alla sfida dello sviluppo sembrano eludere il problema dello “Stato-Nazione”, così com’è stato postulato dall’africanista Basil Davidson, vale a dire una forma istituzionale di imitazione occidentale che si traduce in governi personali e autocratici fondati sul nepotismo e la corruzione esercitati a favore di una o più componenti etniche della popolazione contro le altre. A questo riguardo, Davidson stigmatizza le pesanti responsabilità delle ex potenze coloniali nella captazione di élite autoctone che si prestano impunemente al mantenimento di rapporti economici ineguali seppure informali. Da rilevare che lo sbarco in Africa delle imprese del Drago, ha certamente giovato alle casse delle oligarchie di cui sopra, ma non ha risposto adeguatamente ai reali bisogni delle masse impoverite, ancora escluse dai benefici della crescita del Pil a livello continentale. Guai però a fare di tutte le erbe un fascio. Alcuni Paesi come il Ghana, il Senegal hanno sperimentato l’alternanza al governo, il che ha giovato al rafforzamento delle loro democrazie. Una cosa è certa: l’Africa dispone di un’enorme popolazione giovanile, (circa il 60% della popolazione con meno di 25 anni) che sembra non essere più disposta a tollerare la gerontocrazia dei vari Mugabe ancora in circolazione.
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