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Zimbabwe: ennesimo accordo a Maputo, ma la gente è stufa!

di Giulio Albanese

Lo Zimbabwe di Robert Mugabe è la dimostrazione di quanto sia veritiera e sferzante la saggezza popolare secondo cui al peggio non è c’è mai fine. Stiamo parlando di un personaggio affamato di denaro e potere, con seri problemi di demenza senile, afflitto da una smania incontenibile di grandezza. Nonostante abbia varcato la veneranda età pensionabile, Mugabe non perde mai occasione di tuonare contro i suoi detrattori, in patria e all’estero, considerandosi, dopo quasi trent’anni di governo ininterrotto, alla guida dello Zanu-Pf, l’Unione Nazionale Africana dello Zimbabwe-Fronte Patriottico, il padrone assoluto del suo Paese. Comunque sia, nonostante gli spiragli di luce filtrati timidamente dal vertice di giovedì sera a Maputo (Mozambico), il futuro rimane incerto e l’orizzonte politico foriero di sciagure per l’ex Rhodesia, un tempo tra i più fiorenti Stati del continente ma ridotto ormai al collasso economico-sociale da decenni di scriteriata gestione ideologico-razziale da parte del regime di Mugabe. Un regime che tra le sue peculiarità ha il demerito di aver attuato una sorta di apartheid alla rovescia: espropriando cioè illecitamente dei loro beni i cosiddetti “white farmers”, gli ultimi coloni bianchi rimasti, e attuando una redistribuzione forzata delle terre che non rispondeva ad alcun criterio diverso dal colore della pelle. Per carità, come già scritto ripetutamente su questo blog, l’esigenza di una riforma fondiaria era impellente ma non andava attuata secondo i criteri coercitivi imposti dal vecchio satrapo. Intanto il premier Morgan Tsvangirai, leader dell’opposizione, che era stato costretto a sospendere i lavori del governo di unità nazionale per gli abusi commessi nei confronti dei militanti del suo partito, giovedì sera ha deciso di dare ancora un mese di tempo al suo rivale per attuare i cambiamenti necessari al ristabilimento della democrazia. Il problema di fondo è che esercito, polizia e giudici sono da sempre appannaggio del regime, col risultato che negli ultimi mesi si sono moltiplicati i procedimenti penali contro i deputati di Tsvangirai appartenenti al Movimento per il Cambiamento Democratico (Mdc). La strategia dello Zanu Pf finora è stata quella di erodere il potere del premier, tentando di far decadere dalla carica i pochi seggi di vantaggio che lo Mdc detiene in parlamento. Da rilevare che con una condanna a sei mesi di carcere, secondo la legislazione vigente nello Zimbabwe, un deputato è costretto a dimettersi dal proprio incarico parlamentare. Le accuse spaziano dallo stupro, al furto e dal terrorismo, al disturbo della quiete pubblica. In questo inferno di dolore, a pagare il prezzo più alto è la povera gente. Nel frattempo, la disoccupazione è alle stelle, la miseria cresce a dismisura, mentre il fantomatico dollaro dello Zimbabwe, letteralmente bruciato dall’inflazione, è l’emblema del delirante tracollo nazionale di cui Mugabe è il grande artefice. Ogni tanto qualche mediatore internazionale, con l’ausilio della comunità regionale dei Paesi dell’Africa Australe (Sadc), tenta affannosamente di ricucire lo strappo tra i due contendenti, proprio come è successo giovedì sera a Maputo. Il problema di fondo è che finora Tsvangirai ha avuto le mani legate, essendo ostaggio di un’oligarchia che esige la revoca senza condizioni delle sanzioni imposte dagli Stati Uniti e dall’Unione Europea nei confronti di dirigenti e manager dello Zimbabwe ritenuti vicini al presidente Mugabe. A questo punto la strada per giungere a un cambiamento politico indolore, e così ridare speranza di ripresa, sembra essere ancora un miraggio. Ecco perché sarebbe auspicabile che il consesso delle nazioni africane levassero la propria indignazione, nella consapevolezza che il continente non può permettersi simili défaillance, come peraltro auspicato dal recente sinodo africano. Servono davvero politici santi. E non solo in Africa.

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