Welfare

Zenzero e yucca.bI milanesi hannobfame meticcia

Presa diretta Nel mercato di via Benedetto Marcello

di Redazione

La frutta? Va molto quella dei maghrebini. Poi ci sono i tuberi africani, il peperoncino e il mais della tradizione peruviana. Viaggio in uno straordinario laboratorio del gusto I l sabato mattina in via Benedetto Marcello, a Milano, si svolge un mercato ambulante. Al banco del pesce, gestito da una famiglia campana, alcuni filippini selezionano crostacei, gamberi e scampi. Ragazzi maghrebini improvvisano dei banchetti, impilando cassette di frutta. Di solito vendono cipollotti, limoni, menta e coriandolo. Di fronte a loro il proprietario del camion dei formaggi e salumi rimarca l’italianità dei suoi prodotti, gridando ai quattro venti, che tutto quello che vende è “italianissimo”. Poco oltre, un banco di verdure vende zenzero, tuberi usati nella cucina africana, peperoncini e mais propri della tradizione peruviana. Spesso i clienti chiedono ai venditori cosa siano certi prodotti e come si cucinino. E spesso le discussioni avvengono tra i clienti stessi, che si scambiano consigli e ricette. Le cime di rapa o il sedano di Verona possiedono lo stesso esotismo dei baccelli di okra, della yucca o del pimentón rocoto.

Cosa mettiamo nel piatto?
La antica fame atavica del popolo, nell’Italia di oggi già sublimata nel piacere del cibo, indirizza le persone verso una curiosità aperta, che vuole capire come includere nella propria dieta apporti esogeni. L’intero quartiere intorno a via Settembrini è il laboratorio di un rimescolamento progressivo, che si basa più sullo stomaco e il palato che su altri elementi di confronto. Sul marciapiede di via Petrella sono allineati un piccolo ristorante peruviano, un self-service indiano, che vende piatti preparati, e un negozio di alimentari pachistano, che contiene anche una macelleria halal.
Il bar poco distante, il sabato mattina, diventa una passerella istruttiva. Intorno al bancone, a chiedere un cappuccino o un caffè o una brioche si susseguono progressivamente gli abitanti del quartiere: i negozianti cinesi di fronte, genitori e figli piccoli, soliti a giocare sul marciapiede; il salumaio lombardissimo, che ai ragazzini cinesi ogni tanto offre panini alla mortadella e che si ricorda di quando i suoi figli giocavano per strada, non come i nipoti invece; i commercianti indiani, del Bangladesh o dello Sri-Lanka; i venditori ambulanti senegalesi che hanno appena fatto rifornimento nei negozi cinesi di via Scarlatti; tre ragazzi spagnoli, che discutono delle sfilate di moda alle quali hanno lavorato; due signore russe con delle grosse sporte di plastica; alcuni controllori del treno, dall’accento veneto. Il ritmo degli ordini è intenso, dal piccolo laboratorio di pasticceria sul retro fuoriescono a getto continuo brioche e altri dolci, che scompaiono rapidamente, la macchina del caffè lavora a pieno regime. La colazione sfuma via via che trascorre il mattino. Sul bancone appaiono i salatini e le olive dell’aperitivo, cappuccini e Campari Soda si mescolano. Sul marciapiede tre pensionati, che parlano in dialetto siciliano tra di loro, sono seduti al tavolino con una bottiglia di Prosecco e tre coppe, a godersi il sole di ottobre.

Do you speak pidgin?
I linguisti sostengono che la lingua dominante di un Paese quando è utilizzata dagli stranieri immigrati subisce un processo iniziale di “pidginizzazione”, ossia di riduzione semplificata a un apparato strumentale di elementi utili alla sopravvivenza. Immigrati di origini diverse usano una versione impoverita della lingua per soddisfare bisogni primari. “Pidgin” è un linguaggio snellito in uso tra due gruppi che non hanno una lingua comune, e si riferisce originalmente all’inglese parlato in Cina all’inizio del ventesimo secolo, soprattutto nelle trattative commerciali. Di fatto pidgin è una deformazione della parola business.
A questa prima fase, con il passare del tempo, ne subentra una seconda, dove la lingua viene alterata e arricchita dagli apporti esterni. Il processo si chiama “creolizzazione”. La lingua d’origine si altera grazie agli apporti di molteplici culture. Il portoghese in Brasile, il francese dei Caraibi, l’inglese giamaicano sono lingue creole.
Se si aderisce all’ipotesi della semiologia che ogni forma di comunicazione, se non addirittura di rapporto tra persone, costituisca un linguaggio, possiamo dire che il cibo e la cucina siano dei linguaggi. E potremmo ritenere che, in questo momento, Milano sia un laboratorio dove il linguaggio del cibo sia sottoposto a fenomeni di ibridazione e creolizzazione molto avanzati.
L’italiano, declinato nella forma del cibo, rappresenta una formidabile piattaforma di suggestioni percettive e culinarie, rispetto alle quali gli stranieri, di estrazioni culturali e geografiche estremamente diverse, possono inserirsi, elaborando modificazioni biunivoche: da un lato, gli apporti stranieri modificano il gusto e le modalità di alimentarsi “italiani”, dall’altro l’esposizione alla cucina italiana, ridefinisce i rapporti con la propria cultura gastronomica di riferimento.

Freschezza italiana o giapponese?
Di per sé l’espressione “cucina italiana” non è veritiera. Definisce un palinsesto elementare di pratiche, costumi e ingredienti che attraversano la penisola, un minimo denominatore comune, che è molto differente delle singole articolazioni locali, e che spesso è veicolato soprattutto all’estero. Esistono molteplici elaborazioni puntuali, perché la tradizione culinaria è contadina innanzitutto, radicata nel territorio e legata ai prodotti disponibili. Su questa articolazione frammentaria, che Milano restituisce come un caleidoscopio, si innestano le singole differenze delle varie comunità straniere. Alcuni processi di avvicinamento e analogia avvengono soprattutto rispetto al ruolo, in alcuni casi centrale, che il cibo occupa all’interno di ogni singola cultura: il lungo rito del pranzo festivo accomuna le famiglie italiane a quelle cinesi o filippine. L’interesse, quasi maniacale e ossessivo, per la freschezza dei prodotti è comune tra italiani e giapponesi. Esistono poi risultati già visibili dei dialoghi culinari in corso a Milano: la penetrazione nel settore dei panifici e delle pizzerie dell’imprenditoria egiziana; l’acquisizione dei rudimenti della cucina italiana da parte dei lavoratori filippini, che offrono tali conoscenze in altri contesti (Emirati Uniti soprattutto); la diffusione dell’uso di pesce crudo oltre i ristoranti giapponesi.
La cucina è una piattaforma di scambi costante, uno spazio fluido e in movimento, che sfugge alle cristallizzazioni identitarie, di lenti bradisismi che alterano progressivamente usi, gusti, consumi, relazioni. Pensando alla cucina milanese è comunque utile ricordare che lo zafferano proviene dal mondo arabo (zaafaran), che l’origine del risotto è riferita all’occupazione spagnola (si pensi alla paella) o che la cotoletta alla milanese potrebbe essere viennese (o viceversa).

Si può usare la Carta docente per abbonarsi a VITA?

Certo che sì! Basta emettere un buono sulla piattaforma del ministero del valore dell’abbonamento che si intende acquistare (1 anno carta + digital a 80€ o 1 anno digital a 60€) e inviarci il codice del buono a abbonamenti@vita.it