Non profit
Zambia, morire di debito
Per pagare gli interessi su debiti trentennali, il Paese ha tassato la sanità. Per curare una banale ferita ci vogliono 10 mila kwacha. Il racconto di una religiosa
Un ragazzo si è ferito a un piede a Kafue, un agglomerato sorto dal nulla in un raggio di 50 chilometri da Lusaka, capitale dello Zambia. Da giorni sta sdraiato su una stuoia nel buio di una baracca, mentre l?infezione alla ferita si fa sempre più grave. Una giovane suora italiana, che conosce alcuni ragazzi di strada del quartiere, lo trova e decide di portarlo in una clinica governativa. Appena entrata le chiedono 2000 kwacha e altri 200 per un libretto in cui viene registrato il nome del ragazzo, valido per un anno. L?infezione alla ferita è grave, ci vuole subito un?iniezione. Ma nella clinica non ci sono antibiotici, e neppure siringhe. E poi il ragazzo non ha mangiato, e l?iniezione non si può fare a stomaco vuoto. La giovane suora porta il ragazzo a casa sua a mangiare, poi va in farmacia. Altri 6000 kwacha per le medicine. Di nuovo in ospedale. L?iniezione finalmente viene fatta. A fasciare il piede e a disinfettarlo ci penseranno le suore in convento, perché i soldi sono finiti.
I tagli alla sanità e all?istruzione sono previsti dai piani di aggiustamento strutturale imposti allo Zambia da Banca mondiale e Fondo monetario internazionale. E il governo ogni anno spende molto di più per ripagare il debito estero che per sanità ed istruzione messi insieme. «In tutto avrò speso 10 mila kwacha per curare la ferita di Francis», racconta suor Daniela, una giovane missionaria di Maria Bambina. «Un padre di famiglia a Kafue, ammettendo che abbia un lavoro, guadagna circa 70 mila kwacha. Come potrebbe permettersi di spendere questi soldi per disinfettare una ferita? Quando poi arrivano malattie gravi la gente è costretta a veder morire i propri cari senza poter far nulla».
La disoccupazione è cresciuta vertiginosamente da quando in Zambia è iniziata la privatizzazione delle aziende statali. A Kafue tre fabbriche danno lavoro a pochi fortunati. La Bata, quella delle scarpe, regge ancora; ma le altre due, un’industria tessile e una chimica, prima di proprietà del governo ed ora di privati, stanno per chiudere. «Qui a Kafue arrivano carichi di vestiti usati dall?Europa, che vengono venduti per poco. Comprare un tessuto o fare un vestito costa troppo, così la gente acquista quelli importati e le aziende locali sono costrette a chiudere», dice ancora suor Daniela. Sempre più disoccupati arrivano nelle periferie delle città, e si riversano nei compound, i comprensori di baracche senza luce né elettricità, con le fognature e gli scarichi a cielo aperto. Qui la violenza e la prostituzione sono i modi più semplici per procurarsi da mangiare. L?Aids ha raggiunto livelli altissimi: circa un quinto della popolazione ha il virus e metà è a rischio.
Il programma di liberalizzazione economica che dal 1991 è stato applicato in Zambia ha lasciato senza lavoro più di 60 mila persone. Nel Copperbelt, la regione dello Zambia dove viene estratto il rame, gli effetti del debito estero appaiono con maggior evidenza che altrove. Le miniere gestite dalla compagnia mineraria statale (la Zambia Consolidated Copper Mines) sono andate in crisi quando è crollato il prezzo del rame. Il governo ha cominciato a vendere e i nuovi proprietari hanno ridotto drasticamente il personale, lasciando senza lavoro migliaia di persone. «I privati che hanno acquistato le miniere sono interessati solo al profitto», sottolinea suor Daniela, «e la gente ha perso il lavoro». La vita della gente peggiora di giorno in giorno. I vestiti e il cibo sono sempre più cari, la scuola e le medicine proibitivi.
E gli aiuti internazionali? Un dollaro su due degli aiuti in Zambia viene usato per ripagare il debito. E per ottenere aiuti bisogna applicare il piani di aggiustamento strutturale. La maggior parte della gente di Kafue non sa tutto questo. «A volte mi ribello di fronte alla rassegnazione che vedo nelle persone, e soprattutto nei giovani», dice suor Daniela. «Sembrano convinti che niente si possa fare contro qualcosa di troppo potente che governa la loro sorte».
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