Welfare

Zamagni: «Disabilità e medicina personalizzata hanno bisogno degli ETS»

Intervista al prof Stefano Zamagni sulle nuove sfide per il Terzo settore nell'ambito della disabilità. «La burocrazia non può offrire progetti personalizzati, perché deve applicare le norme in maniera indistinta a tutti i cittadini. Invece il nuovo bisogno di assistenza non è più uguale per ciascuno. Ecco perché è impossibile che una struttura pubblica possa arrivare ad offrire un servizio ad personam e chi dice il contrario mente o non se ne intende o non capisce. I tempi oggi maturi per la medicina personalizzata ma, per farlo bisogna cooperare con gli ETS»

di Mihaela Moana Marcu

Ad intervistare il prof. Stefano Zamagni sui temi della disabilità è Mihaela Moana Marcu, una mia neo-laureata, prossima assistente sociale, dell’Università di Siena (DISPOC): rumena di origine, da vent’anni trasferita a Siena per motivi di studio, accolta in una famiglia senese da sei anni come baby sitter, volontaria per le attività della cooperativa tessile (di tipo B) di Lucca "La Tela di Penelope" e talvolta autrice di articoli per un giornale online (7gifts.org). In altri termini, il perfetto esempio di integrazione e di inclusione nella comunità e nel territorio senese. Le domande rivolte al prof. Zamagni sono state lo spunto da cui partire per tracciare “Le nuove frontiere della disabilità alla luce della riforma del Terzo Settore”. L’auspicio che possiamo trarre da questa intervista è che, in un prossimo futuro, in tutto il territorio (anche nazionale), si possa dare un impulso ad una “nuova consapevolezza dell’altro”, ad una “nuova cultura inclusiva tra i cittadini” (sia in forma singola che aggregata) e a nuove forme di co-programmazione e di co-progettazione con il coinvolgimento di istituzioni politiche (sia locali che nazionali), il comparto sanitario (nel suo complesso, quindi medico e paramedico), il Terzo settore ed il variegato e complesso mondo della disabilità, in modo da poter porre al centro dei progetti, degli approcci e delle scelte l’individuo, con i suoi bisogni, le sue risorse e le sue aspettative, come risultato di una politica efficace, democratica e civile che dovrebbe racchiudere un paradigma innovativo, ovvero quello di una speciale normalità, fatta di punti di forza e di criticità. [Maria Vella, docente in Economia e gestione del Terzo settore all’Università di Siena, ideatrice e direttore scientifico di LET’S GO UNISI.IT]

Professor Zamagni, quanto pensa che la Riforma del Terzo settore abbia avuto un impatto nell’ambito della disabilità? Può darci un quadro di sintesi?

La Riforma del Codice del Terzo Settore, diventata legge nel 2017, non si rivolge direttamente alle disabilità, ma ha per oggetto gli ETS come il volontariato (le ODV), le associazioni di promozione sociale (APS), le imprese sociali (che includono le cooperative sociali), le società di mutuo soccorso, gli enti filantropici, le fondazioni di diritto civile e gli “altri enti”. La totalità di queste categorie ha al proprio interno una sezione di attività specifica per le disabilità, quindi non si può trovare una correlazione diretta tra legge di Riforma e la disabilità ma è vero che quasi tutte le cooperative sociali – specie quelle ad inserimento lavorativo – operano a favore dei disabili e lo stesso fanno anche le organizzazioni di volontariato. Quindi non esiste una corrispondenza diretta tra Riforma e disabilità, anche se trasversalmente il tema della disabilità coinvolge tutte le attività del Terzo settore nei termini per esempio di inserimento scolastico, integrazione lavorativa, inclusione, accessibilità, ecc. La Riforma ha quindi dato ulteriori margini per l’inserimento dei prodotti/servizi offerti dagli enti del TS, permettendo loro un ulteriore coinvolgimento; quindi, implicitamente ed indirettamente, questo va nella direzione, da tutti auspicata, di avviare e porre rimedio alle situazioni di “discriminazioni” che in Italia sono ancora presenti nei confronti delle diverse varianti della disabilità.

Nello spirito del Codice del Terzo Settore c’è quello di valorizzare l’impegno delle persone attraverso forme di aggregazione sociale e questo, sicuramente, rafforza il senso di comunità, soprattutto per le realtà territoriali. Oltre alle forme associative “tradizionali”, come le ODV o le APS, vede emergere nuove forme di aggregazione sociale? Ad esempio quelle che il Codice riconosce come “altri Enti di carattere privato diversi dalle società”, potrebbero avere una funzione di amalgama per l’ulteriore diffusione e nuove modalità di assistenza alla disabilità?
È evidente che le attività che vengono poste in essere a favore dei portatori di disabilità non sono solo quelle che vengono sistematicamente perseguite dagli ETS ma ci sono altre realtà, pur non considerate ETS, che si rivolgono alla stessa platea delle persone con disabilità. Penso alle “reti familiari” che non hanno dato vita ad associazioni come le APS, ma si rivolgono al medesimo target di portatori di bisogni; la stessa configurazione vale per le attività gestite da alcune imprese, che oggi si chiamano “società benefit”, che vanno sempre nella stessa direzione (attualmente sul territorio sono un migliaio e sono state istituite con una legge del 2015). Buona parte di queste società benefit si occupano non solo di portare assistenza, ma di garantire forme varie di inserimento lavorativo e di far partecipare queste persone alla vita civile. La platea degli enti che noi vediamo è quindi più variegata ed estesa perché da un lato ci sono gli enti pubblici, come i servizi sociali che già da prima si occupavano della presa in carico, poi ci sono gli ETS e infine questi diversi di soggetti come le reti familiari, le società benefit, le parrocchie e le Caritas. Quest’ultima, ad esempio, non è un ETS, eppure è riconosciuta come uno degli enti che maggiormente si impegna su questo fronte; è evidente che nel prossimo futuro non si vada ad inserire fra le categorie previste dalla Riforma ma è auspicabile che ci si prepari a predisporre delle norme di legge che contemplino la loro attività, per evitare che alla fine, siano proprio i portatori del bisogno a rimetterci.

L’Italia è il paese più vecchio d’Europa, con 22,8% della popolazione totale che ha più di 65 anni: questo andamento demografico pone il problema del “dopo di noi”, soprattutto per le situazioni di fragilità, in particolare pensando ai disabili. Secondo lei, è un caso che la legge sul dopo di noi e quella del Terzo Settore siano nate in tempi molto vicini (il 2016 ed il 2017)? Questa prossimità temporale può indurci a pensare ad un disegno preciso del legislatore?
La risposta è sicuramente positiva; è vero che una norma “ha tirato la volata all’altra”, come si sul dire. Fino a non molti anni fa in Italia, l’idea di fondo era che spettasse allo Stato ed agli enti pubblici prendersi cura dei portatori di handicap o di disabilità. Questa è il residuo di una mentalità statalista, secondo la quale è lo Stato che deve prendersi cura dei bisogni dei loro cittadini “dalla culla alla bara”, come recita una famosa frase di Lord Beveridge. Per diversi decenni, l’italiano medio ha quindi considerato che dinanzi a un portatore di bisogni fosse necessario segnalarne l’esistenza ai vari servizi sociali dei Comuni o delle Regioni. Nell’ultimo ventennio, la capacità dell’intervento pubblico e quindi del Welfare State è diminuita, sia per la mancanza di risorse (monetarie ed umane) che per la mancanza di capacità progettuali. In tempi recenti c’è stata questa spinta che ha portato all’approvazione sia della legge “Dopo di noi” sia del Codice del Terzo Settore. Questi due eventi erano stati preceduti, nel 2001, dall’inserimento della “sussidiarietà” all’interno dell’Art. 118 della Costituzione, che aveva già dato una spinta in maniera decisiva. La corsa non è finita, perché nel prossimo futuro, si dovrà continuare in questa direzione.

I tempi sono oggi maturi per passare alla medicina personalizzata ma, per fare questo, bisogna cooperare con gli ETS, perché l’ente pubblico per legge deve applicare la norma in maniera standardizzata per tutti e questo non può più essere accettato in un Paese che si dichiara civile. Il disabile, ad esempio, deve essere inserito a scuola o avviato al lavoro, ma non si può pensare di applicare le stesse modalità per tutti! Si deve tenere conto delle caratteristiche temperamentali e caratteriali di ciascuno, altrimenti l’obiettivo dell’inserimento e dell’integrazione potrebbe fallire, peggiorando la situazione. Ecco perché è fondamentale usare un approccio “relazionale” al posto di quello “burocratico”.

Stefano Zamagni

Il progetto personalizzato dovrebbe essere lo strumento nel quale vengono raccolti i dati socio-sanitari della persona e le azioni psicologiche per la sua situazione di fragilità; in questo strumento viene valorizzato anche il lavoro, visto come inclusivo e riabilitativo. Come sta cambiando, secondo lei, il mondo del lavoro per le persone disabili? Quali strumenti potrebbero mettere in campo i servizi socio-sanitari e gli ETS per cogliere questo cambiamento? Come coniugare, ad esempio le possibilità offerte dall’home-working in tempo di Covid, con il bisogno di socialità e di inclusione?
Non bisogna pensare che tutto sia legato alla pandemia, perché i problemi c’erano anche prima. Il punto su cui soffermarsi è che il “progetto personalizzato”, che fa riferimento alla situazione di bisogno sia dei disabili che degli ammalati, prevede il capovolgimento delle modalità di erogazione dei servizi pubblici sociali, basati in precedenza, sia in Italia che all’estero, su modalità di intervento di tipo “burocratizzato”. Ma la burocrazia non poteva offrire progetti personalizzati, perché il burocrate doveva applicare le norme in maniera indistinta a tutti i cittadini mentre, invece, il nuovo bisogno di assistenza individuato non è più uguale per ciascuno: ecco perché è impossibile che una struttura pubblica possa arrivare ad offrire un servizio ad personam. Chi dice il contrario mente oppure non se ne intende o forse non capisce.

Facciamo un esempio: se due persone soffrono della stessa patologia, immaginiamo due persone affette da tetraparesi, il burocrate aveva una specie di prontuario con cui erogava servizi in maniera standardizzata per quella patologia, che è uguale per tutti. Invece oggi si sa che la stessa malattia in due individui diversi implica molteplici e diverse conseguenze (personali, inclusive, integrative, di accessibilità, di inserimento sociale nella comunità e nel territorio, ecc.). Di conseguenza, il più recente Piano individuale personalizzato per le persone con disabilità non viene fatto solo sulla base della malattia ma si estende anche ai bisogni del singolo malato, in quanto la stessa malattia ha conseguenze diverse su ciascuno; per attuarlo, infatti, è necessario un “approccio relazionale” ed è ovvio che il burocrate non può applicarlo ed anche se volesse non può farlo, perché la legge prevede dei percorsi codificati. Ma le persone non sono uguali e reagiscono diversamente di fronte alla stessa malattia.

Poi accade che alcuni burocrati siano particolarmente sensibili e cerchino di rimediare, ma un burocrate non è tenuto ad essere “simpatico” o “a dire una parola di conforto”: è obbligato ad applicare la procedura com’è stabilita. Si può dare una medicina con il sorriso sul volto, ma non è scritto da nessuna parte che i pubblici dipendenti debbano essere empatici, “simpatetici” e capaci di relazionarsi. I tempi sono oggi maturi per passare alla medicina personalizzata ma, per fare questo, bisogna cooperare con gli ETS, perché l’ente pubblico per legge non può adottare quest’approccio, ma deve applicare la norma in maniera standardizzata per tutti e questo non può più essere accettato in un Paese che si dichiara civile. Il disabile, ad esempio, deve essere inserito a scuola o avviato al lavoro, ma non si può pensare di applicare le stesse modalità per tutti! Si deve tenere conto delle caratteristiche temperamentali e caratteriali di ciascuno, altrimenti l’obiettivo dell’inserimento e dell’integrazione potrebbe fallire, peggiorando la situazione. Ecco perché, per questo tipo di problematica, è fondamentale usare un approccio “relazionale” al posto di quello “burocratico”.

Photo by Renee Fisher on Unsplash

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