Giustizia

Youssef, che non doveva stare in carcere

Parla Cecco Bellosi, direttore educativo della comunità Il Gabbiano che ha ospitato fino a pochi mesi fa il 18enne egiziano morto in un incendio nel carcere di San Vittore: «Non si può rinchiudere in carcere chi ha una sofferenza mentale». E ricorda la frase che ripeteva spesso: «In Libia mi si è rotto qualcosa dentro, che non so se riuscirà mai a rimettersi insieme»

di Ilaria Dioguardi

«La foto di Youssef a piazza del Duomo, circondato dai piccioni, testimonia quanto lui a Milano si sentisse a casa sua. Quando abbiamo saputo della sua morte, è stata per noi una grande sofferenza, individuale e collettiva». A parlare del ragazzo, con la voce rotta dall’emozione, è Cecco Bellosi, direttore educativo delle comunità Il Gabbiano, che l’ha ospitato fino a fine giugno scorso. Il diciottenne egiziano è morto in un rogo nel carcere di San Vittore, dove era da circa un mese, nella notte tra giovedì 5 e venerdì 6 settembre. Un’inchiesta farà luce sull’accaduto.

Bellosi, cosa vuole raccontarci di Youssef?

Si era molto affezionato a me, agli operatori e alle operatrici, che vedeva come delle figure adulte di riferimento. Nella nostra comunità si è trovato come a casa, una casa che non aveva. Aveva anche seguito un corso di cucina, di cui era molto orgoglioso perché aveva imparato i piatti locali della Valtellina, come i pizzoccheri. Gli è stata anche prospettata la possibilità di una borsa lavoro, in un posto in cui vengono allevate le galline nel bosco. Gli era piaciuto questo luogo, che gli dava un’idea di libertà. Ma lui era stato giudicato “incapace di intendere e di volere” dalla Magistratura, una di quelle dizioni che dicono tutto e non dicono niente allo stesso tempo. Ma Youssef, in certi momenti, era molto capace di intendere e di volere.

Ci spieghi meglio.

Era capace di intendere e di volere a tal punto che, un giorno, aveva detto alla responsabile della struttura che lo ospitava: «In Libia mi si è rotto qualcosa dentro, che non so se riuscirà mai a rimettersi insieme». Questa credo sia la sua autoanalisi assolutamente centrata, vera. Era capace di intendere e di volere ma a intermittenza. Aveva periodi di luce, con manifestazioni di affetto, di legame con la comunità, che ha mostrato anche quando ha iniziato ad assentarsi, a scappare: tendeva a rientrare sempre. Ma alternava questi periodi ad altri in cui si chiudeva, come se si si spegnesse la luce. Per i primi tre mesi, è stato un ospite molto attivo e attento. Il problema è che noi, come comunità di minori (Youssef aveva da poco compiuto 18 anni), siamo una comunità educativa. Seguiva una terapia psichiatrica. Avrebbe avuto bisogno forse di essere ospitato in una comunità terapeutica, psichiatrica. Probabilmente sarebbe scappato anche da lì, ma si sarebbe potuto provare. Abbiamo segnalato che sarebbe stata più opportuna per lui una comunità a valenza psichiatrica, ma c’è un problema di posti, di tempi, di un’organizzazione che non funziona rispetto alle esigenze e alle domande. Il problema della sofferenza psichica, soprattutto negli adolescenti, è sempre più diffuso e le risposte sono sempre più carenti.

Youssef com’era arrivato in Italia?

A 15 anni è andato via dall’Egitto, con l’idea di raggiungere il fratello in Italia. Ma è rimasto bloccato per un anno in Libia, dove è stato prigioniero. Credo che abbia vissuto in un anno esperienze così traumatiche, tra percosse e violenze, che qualunque persona non vive in una vita intera. Ha fatto il viaggio verso l’Italia legato sul barcone, circa due anni fa. Suo fratello maggiore è arrivato prima di lui nel nostro Paese, ma il suo viaggio è stato più tranquillo. I traumi emotivi che aveva vissuto Youssef non gli hanno permesso di rimanere molto dal fratello, ha iniziato a vagare per Milano. Quando è successo della morte di Youssef, suo fratello ci ha telefonato per ringraziarci per quello che avevamo fatto per lui.

Il problema della sofferenza psichica, soprattutto negli adolescenti, è sempre più diffuso e le risposte sono sempre più carenti

Quanto è stato Youssef nella vostra comunità?

Quasi cinque mesi, dopo essere stato in altre strutture, dove era rimasto solo qualche giorno. i primi tempi è stato con noi in modo molto partecipe e attivo. A fine giugno è scappato e non è più rientrato. I primi di agosto è stato arrestato per uno di questi reati che commettono le persone con problemi di sofferenza psichica, che generalmente sono o la resistenza a pubblico ufficiale (quando vengono fermati hanno una reazione emotiva un po’ forte), oppure la rapina: rubano qualcosa in un supermercato, cercano di scappare e vengono arrestati.


Poi è stato portato nel carcere di San Vittore.

Sì, un carcere con un indice di sovraffollamento altissimo: non dovrebbe ospitare più di 500 detenuti e ne ospita più di 1100. Tutti i nuovi arresti finiscono lì, compresi questi ragazzi adolescenti appena diventati maggiorenni, generalmente per reati che dicevo e in situazione di sofferenza mentale. Diventano molto diffusi gesti di autolesionismo, di auto aggressività e gesti di protesta. Solo l’inchiesta stabilirà se l’incendio è stato appiccato per protesta o per qualche altro motivo e da chi. Youssef era in cella con un altro ragazzo. Era stato anche al carcere per minori Beccaria di Milano, prima di compiere 18 anni (lo scorso febbraio), ma essendo poi ritenuto “incapace di intendere e di volere” è stato accompagnato in alcune comunità.

Come avete avuto la notizia della sua morte?

Abbiamo sentito che un ragazzo di 18 anni, egiziano, era morto nella notte a San Vittore, abbiamo subito pensato a lui. È stato un dolore individuale e collettivo molto forte. Noi spesso ci sentiamo impotenti e inadeguati, ma il sentimento nei confronti di Youssef è stato un altro.

Quale?

Un grande affetto. È rimasto mesi da noi, questo per il suo carattere è stato un passaggio importante: in altre comunità non era rimasto più di qualche giorno. Noi abbiamo provato con lui, e lui ha provato con noi, tutto quello che era possibile. Il rammarico è che non sia stato sufficiente quello che abbiamo fatto. Ma il sentimento vince sul fatto che possiamo aver avuto delle mancanze nei suoi confronti, che probabilmente ci sono state, ma sentivamo ampiamente compensate dall’affetto vero, autentico che abbiamo provato per Youssef e viceversa.

È importante ricordare Youssef come una vittima di un sistema complessivo, che ha delle responsabilità: non è per niente accogliente ed è sempre più securitario

Cos’altro vuole dirci di Youssef?

Che gli abbiamo voluto un gran bene, e che lui ne ha voluto a noi. È importante che si stabilisca cosa è successo quella notte a Youssef dal punto di vista giudiziario, sociale e politico. Ma dal punto di vista umano…

Dal punto di vista umano?

È importante ricordare Youssef come una vittima di un sistema complessivo, che ha delle responsabilità: non è per niente accogliente ed è sempre più securitario. In questa ricerca di futuro ci sono ragazzi che incontrano degli ostacoli così grandi che non ce la fanno. Un medico di San Vittore ha proposto a noi e ad altre persone che l’hanno conosciuto un ricordo collettivo di Youssef, da organizzare a Milano. È un’idea giusta. Voglio dire che non si può rinchiudere in carcere la sofferenza mentale. Questo, nel caso di Youssef, è l’elemento più tragico. Che non ci sia un posto in cui mettere le persone che hanno problemi di salute mentale che non sia il carcere è veramente drammatico.

Foto dal profilo Facebook della comunità Il Gabbiano

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