Qualche giorno fa è stata pubblicata una interessante ricerca del Censis sull’evoluzione e il futuro del sistema di welfare. Interessante dal punto di vista metodologico perché mette a confronto le rappresentazioni dei tre attori chiave: pubblica amministrazione, utenti dei servizi e imprese di erogazione (sia profit che non). E interessante perché i risultati dicono di un ciclo di produzione e gestione di servizi sociali, sanitari, educativi giunto ormai a maturazione e chiamato ad aprirsi ad una nuova fase di sviluppo. Il modello attuale – con l’ente pubblico in posizione centrale, gli enti di erogazione che agiscono in coda alle procedure di outsourcing e gli utenti che si muovono all’interno di un orizzonte di offerta dai confini definiti – ha già lavorato, anche con un certo successo, sui suoi livelli di efficienza: devolvendo le competenze amministrative ai livelli locali, riconoscendo un ruolo attivo ai beneficiari in veste di clienti, migliorando la qualità delle prestazioni da parte degli erogatori. Il limite non sta solo nella sostenibilità in termini economici, ma, come diceva Chiara Saraceno alle Giornate di Bertinoro, nella sua incompiutezza universalistica. Un limite grave per un sistema che si è permesso di differenziare l’offerta senza aver realizzato l’obiettivo di garantire una copertura standard come diritto di cittadinanza. La crisi economica, da questo punto di vista, ha svolto un ruolo ambivalente: da una parte ha accentuato gli elementi di criticità del modello dominante, ma proprio per la delicatezza della congiuntura nessuno dei policy makers – pubblici e non solo – se l’è sentita di mettere mano a un percorso di riforma istuzionale, come dimostra il poco di fatto dopo l’uscita del libro bianco sul futuro del modello sociale e, ancor di più, il dibattito estivo sulla Big Society all’italiana lanciato dal ministro Sacconi: molto stimolante ma un pò povero di proposte (per usare un eufemismo). Utilizzando un linguaggio da tecnologi, c’è un evidente fenomeno di lock – in nel welfare italiano. Tutti gli attori sono stati letteralmente catturati da un impianto culturale, normativo e gestionale che per quanto datato consente ancora di produrre vantaggi contingenti che impediscono l’innovazione di sistema. Se a questo si aggiungono i costi di investimento per la definizione del nuovo standard il blocco è bell’e fatto. In altri termini le sperimentazioni di questi ultimi trent’anni, spesso nate dal basso senza seguire un disegno di riforma comune, hanno generato una massa inerziale a tutto vantaggio dello status quo, frenando ogni tentativo di autentico riformismo. Frenano gli enti pubblici perché vogliono mantenere il controllo su un importante veicolo di consenso. Frenano gli utenti già inseriti nei circuiti della protezione sociale, soprattutto in questa fase di grande incertezza. E frenano gli erogatori dei servizi, anche quelli non profit, che molto hanno investito per qualificare il loro ruolo attraverso certificazioni, accreditamenti, gare d’appalto, ecc. Da dove ripartire? Quelli del Censis rilanciano il confronto fra gli attori istituzionali utilizzando parole chiave ben conosciute: partnership, territorio, sperimentazione, diversificazione (dei servizi) e integrazione (fra i soggetti). E solo accennano a quella che, a mio parere, è invece la strada maestra (seppur lunga e accidentata): ricostruire le basi del consenso intorno ad una rinnovata funzione pubblica del welfare. I diretti interessati, i cittadini, sembrano mostrare una timida propensione in tal senso, anche se la funzione di voice, cioè di reclamo rispetto a nuove soluzione per nuovi bisogni magari pensando anche ai molti esclusi, sembra avere le armi spuntate. Potrebbe essere una buona occasione per le imprese sociali, se si scrollassero di dosso un pò della cultura statalista che ne ha ispirato, almeno in parte, strategie e comportamenti recenti, abbandonando un mero ruolo di subfornitura, ben giocato per carità, ma non coerente finalità d’impresa che scomodano addirittura “l’interesse generale della comunità”. Per un obiettivo di questa portata il confronto istituzionale (tipo Piani di zona) non basta, anzi non funziona perché alimenta il blocco al cambiamento e spinge a investire ulteriormente su una tecnologia sociale ormai al limite della sua efficacia. Meglio aprire un dialogo diretto con i cittadini. E qualche iniziativa si vede in giro: come “Condividere il cuore” di Cgm che porta in piazza le sue cooperative e usa il medium culturale. Ma c’è altro: è di qualche giorno fa la pubblicazione di un interessante indagine esplorativa sulla propensione comunitaria delle regioni italiane, una specie di misura del potenziale di mobilitazione della società civile per rispondere, in prima persona, ai propri bisogni. Chi l’ha fatto? Il terzo settore? No, Confartigianato. E ancora, si scopre che il valore dei consumi di welfare delle famiglie italiane vale, in media, il 7% del loro budget (poco meno di 150 euro al mese), con variazioni aumenti consistenti al crescere dell’età dei membri della famiglia e del loro livello di reddito. Chi ha l’ha misurata? Il Ministero delle politiche sociali? No, Coop Italia.
17 centesimi al giorno sono troppi?
Poco più di un euro a settimana, un caffè al bar o forse meno. 60 euro l’anno per tutti i contenuti di VITA, gli articoli online senza pubblicità, i magazine, le newsletter, i podcast, le infografiche e i libri digitali. Ma soprattutto per aiutarci a raccontare il sociale con sempre maggiore forza e incisività.