No, niente di drammatico. Solo una traslazione mal riuscita del fashion victim, una specie di consumatore che, secondo il Sole 24 Ore di qualche giorno fa, appare in via d’estinzione per lasciare spazio a un prototipo che sa sempre meglio cosa, quando, quanto e come consumare. E nel welfare in assetto di mercato (o “quasi”) che succede? Credo che lo stadio evolutivo sia più arretrato. Sia per una questione di esperienza: si viene da decenni di utenza passiva, dove altri – lo stato – decidevano tipologia, quantità e costo dei beni, sia per l’assetto di questa particolare arena mercantile. Nei manuali si legge che la questione è tutta nel divario informativo fortemente asimmetrico a favore del produttore che quindi può indurre forme di consumo di servizi assistenziali, salitari, educativi, ecc. ad libitum. Ma c’è un’altra variabile altrettanto se non più importante che riguarda i costi di uscita dalla transazione di mercato. Perché la crescita del tasso di relazionalità (e i servizi di welfare sono beni di relazione) implica una commistione maggiore tra produttore e consumatore e per quest’ultimo diventa sempre più complicato rompere il legame e affidarsi a qualcun altro. La relazionalità è un giano bifronte: ad alte dosi svela il carattere “intimo” dei bisogni consentendo di identificare, spesso con l’aiuto degli stessi beneficiari, soluzioni adeguate. Ma d’altro canto questo stesso legame (nomen omen) a basso tasso di formalizzazione e anonimato limita i gradi di libertà nel cercare soluzioni alternative. A meno che il produttore sia non auto ma etero-interessato. E qui sta , nei fatti, la socialità dell’impresa.
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