Non profit

Welfare, vade retro Danimarca

E' questa l’ultima pensata partita dalla grande stampa e che è piombata sulla politica, trovandola ovviamente un po’ sprovvista.

di Giuseppe Frangi

Un welfare alla danese. è questa l?ultima pensata partita dalla grande stampa (in contemporanea Corriere e Repubblica, con interventi di Francesco Giavazzi e Luigi Spaventa) e che è piombata sulla politica, trovandola ovviamente un po? sprovvista. Il welfare alla danese sarebbe in poche parole un welfare perfetto, che sa bilanciare in maniera ideale flessibilità e sicurezza. In particolare lascia ampia libertà di licenziare al datore di lavoro, ma protegge il lavoratore con sussidi di disoccupazione che coprono per un arco di tempo lungo (sino a quattro anni) anche il 90% dello stipendio. In cambio c?è l?obbligo di seguire un percorso formativo e di aggiornamento che agevoli la reimmissione nel mercato del lavoro. Evidentemente siamo davanti a un welfare dei sogni che fa strabuzzare gli occhi ai nostri liberisti sempre alla ricerca ?pacificante? di modelli ideali. Ma il welfare ideale è la negazione stessa del welfare, ovvero della sua ?praticabilità?: perché non fa i conti con le condizioni concrete, con le caratteristiche di ogni paese, con la sua storia e la sua cultura. Siamo nella stagione della globalizzazione trionfante, ma ci portiamo dietro comunque le nostre specificità. Aggiungiamo: grazie al cielo che ce le portiamo dietro, per quanto possano sembrare zavorrate di limiti e di difetti… Ma queste specificità vanno sempre di traverso agli intellettuali perfettisti, che ogni volta sono pronti a proporre un modello, con l?idea di ripartire da una tabula rasa. Per un periodo è stato il modello inglese (quello del welfare trasformato in war-fare); poi quello francese, con lo Stato che arriva dappertutto e fa sognare con la riduzione dell?orario a 35 ore (i risultati li abbiamo visti tutti nelle settimane scorse). Costante nel tempo, invece, è il riferimento ai modelli ideali delle socialdemocrazie anseatiche. Ma l?Italia non è la Danimarca. Ha altri problemi e anche altre risorse. E l?Italia deve pensare il suo modello di welfare, senza doversi vergognare delle proprie difficoltà. Piuttosto deve puntare sulle proprie ricchezze: e siccome siamo ?ricchi? di un società di mezzo che la Danimarca non ha assolutamente nel proprio dna, il nostro modello di welfare dovrà far leva su quel patrimonio. E potrebbe, perché no?, venirne fuori anche un welfare migliore. Invece se qualche vizio vorremmo eliminarlo da subito, è quello di lanciare le idee impossibili alla politica. è un vizio (o un vezzo?) in cui professori e intellettuali incorrono spesso, con il risultato di mettere sotto scacco la politica. Di costringerla a confrontarsi con realtà che assolutamente non conosce, di darle altri alibi per non affrontare in modo realistico le questioni che contano. Se ne è accorto nei giorni scorsi un testimone attento come Sergio Marelli, chiamato a partecipare al Big Talk della Margherita a Milano. I big erano concentrati ad alambiccarsi sulle questioni lanciate dalla grande stampa per conquistare lustro e consenso, e hanno lasciato clamorosamente inevase alcune questioni centrali. Ha detto Marelli, sfogandosi a un incontro con i cooperatori lombardi: «Mi ha impressionato come né Rutelli in apertura, né Prodi in chiusura dell?appuntamento abbiamo mai usato nessuna di queste parole: cooperazione, sussidiarietà, volontariato, non profit». C?è qualcuno che crede davvero che il welfare all?italiana possa fare a meno di quelle categorie? Vade retro, Danimarca.


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