Economia

Welfare e trasformazioni del lavoro. Può il mercato offrire spazi per una nuova coscienza?

Occuparsi di lavoro, cittadinanza, welfare, diritti, non è certo un attività che rende popolari. Si è visti – prevalentemente – come dei pessimisti incalliti, incapaci di cogliere la grande bellezza del mondo globale. Per chi, invece, si ritrova ogni giorno in contatto con persone che avendo perso il lavoro hanno perso anche la dignità e la piena cittadinanza, continuare a riflettere sul lavoro significa non solo ipotizzare strategie di resistenza ma, anche, nutrire la propria speranza

di Pietro Piro

Nutrire la propria Speranza

Occuparsi di lavoro, cittadinanza, welfare, diritti, non è certo un attività che rende popolari. Si è visti – prevalentemente – come dei pessimisti incalliti, incapaci di cogliere la grande bellezza del mondo globale.

Per chi come me, invece, si ritrova ogni giorno in contatto con persone che avendo perso il lavoro hanno perso anche la dignità e la piena cittadinanza, continuare a riflettere sul lavoro significa non solo ipotizzare strategie di resistenza ma, anche, nutrire la propria Speranza.

Ha ragione Salvatore Cavaleri quando scrive che: «si dovrebbe smettere di usare l’espressione lavoro sociale per fare riferimento ad un settore specifico, proprio perché tutto il lavoro è un lavoro sociale. Tutto il lavoro è fondato sulla cooperazione e la socializzazione. Tutto il nostro agire collettivo entra nei circuiti dell’economia” (L’inutile fatica: soggettività e disagio psichico nell’ethos capitalistico contemporaneo a cura di S. Cavalleri, C. Lo Piccolo, G. Milano; Mimesis, Milano- Udine 2016, p. 45).

Dentro questa economia ogni lavoratore contribuisce attivamente a creare società e a difenderla dalla tentazione del disfattismo.

Tuttavia, non a tutti i lavoratori è riconosciuto questo contributo civile. È per questo motivo che mantenere vivo l’interesse sul lavoro significa contribuire alla dignità dei lavoratori, ad un cammino di liberazione.

Per questo motivo che credo che chi si occupa in prima linea “del sociale” non debba mai interrompere il dialogo con quegli studiosi che provano ad offrire analisi sensate e proposte pratiche.

Welfare e trasformazioni del lavoro

In questa prospettiva di ricerca del senso, Giacomo Pisani ha scritto un libro che permette di ricostruire alcuni passaggi decisivi delle trasformazioni sociali del nostro Paese. Un libro agile e sintetico – mai semplicistico o sbrigativo – che merita un’attenta lettura.

Il libro: Welfare e trasformazioni del lavoro, Ediesse, Roma 2019, ci ricorda che: «Stiamo vivendo, negli ultimi decenni, alcuni cambiamenti epocali che, investendo il mondo del lavoro e della produzione, ci costringono a mettere in questione il welfare e il lessico dei diritti, ancora tutto centrato su quella soggettività lavoratrice salariata che tanta parte ha avuto nella costruzione della cittadinanza moderna. Il lavoro è stato l’architrave dello sviluppo della sovranità […] la mediazione fra capitale e lavoro, su cui hanno fatto perno le costituzioni europee del dopoguerra, rendendo le soggettività collettive parte attiva dello sviluppo istituzionale del paese, ha immerso il diritto nella materialità dei rapporti di produzione. Oggi, almeno in Europa e più in generale nelle economie occidentali, quella mediazione è completamente saltata, forzata in più punti e in numerose direzioni» (pp.11-12).

Pisani ripercorre le tappe dell’evoluzione dei rapporti tra capitale e lavoro provando a ipotizzare: «un nuovo scenario istituente, che guardi alla capacità trasformativa e autonoma dei nuovi soggetti che abitano il mondo, assumendo la possibilità di pensare un altro futuro» (p. 13).

Pisani con il suo testo ci mette di fronte a questa assurda contraddizione: «la dipendenza salariale resta la condizione fondamentale di sopravvivenza, mentre il lavoro continua a essere centrale nella costruzione dell’identità delle persone […], legandosi all’aspirazione alla solidità di progetti di vita socialmente riconosciuti come accettabili e dignitosi. Non si è avuta quella decostruzione generalizzata che il postmodernismo aveva invocato e l’impossibilità di accedere al lavoro, alla casa e a progetti a lungo termine si traduce in un disagio esistenziale profondo, spesso patologico. La precarizzazione dei percorsi professionali e dell’esistenza, in un tempo in cui il welfare e la sicurezza sociale sono ancora legati al lavoro e alla stabilità salariale, si traduce in un dispositivo che strozza la possibilità dei soggetti di progettare il proprio futuro. In questo quadro per chi resta escluso dal perimetro della «normalità» le uniche possibilità aperte restano quelle più anonime e meno «impegnative» rispetto all’identità individuale, legate, ad esempio, al consumo, al divertimento immediato e alla comunicazione superficiale che si realizzano entro le sacche di passività del mercato» (p. 69).

L’Esodo impossibile

Siamo ancora dentro l’impossibilità di sognare l’Esodo dalla società del lavoro e in questa impasse si consumano le vite di migliaia di persone escluse dai diritti di piena cittadinanza perché non esiste “un lavoro per loro” dentro una società che esclude e che impone nuove categorie di appartenenza al consumo.

Il progressivo venir meno delle risorse per il welfare risponde al bisogno d’innalzare muri sempre più invalicabili tra le classi e, in fondo, tra persona e persona.

Scrive Pisani: «Il welfare aveva costituito un formidabile elemento di mediazione fra il potere statale e la società. L’esecutivizzazione del potere oggi determina un ulteriore sradicamento della produzione legislativa rispetto ai bisogni sociali. Non è un caso che, a fare le spese delle politiche di austerity, siano state innanzitutto le risorse dirette al welfare e ai diritti sociali. Questi, come abbiamo visto, avevano costituito degli argini allo sviluppo economico, ancorandolo al riconoscimento materiale della dignità. Di fronte alla loro erosione resta una soggettività interamente immersa nel mercato, senza alcuna ancora di supporto» (p. 119).


Assistiamo oggi a un fenomeno di riduzione funzionale del linguaggio, di rescissione del rapporto tra significazione e singolarità della voce. Sta qui il cuore della precarizzazione, perché il rapporto tra le parole e le cose non è più fondato sull’adesione affettiva, sulla condivisione corporea, ma è ridotto a funzione operativa. Perciò gli esseri umani non sono più capaci di essere fratelli

Franco Berardi “Bifo”, Senza Madri

Pisani riesce ad intercettare una delle sensazioni più diffuse oggi tra chi lavora: quella di trovarsi soli nel lavoro, con il lavoro, di fronte al datore di lavoro, in una nudità incapace di reagire allo strapotere di un sistema-mondo anonimo e deterritorializzato che si muove seguendo leggi implacabili (il mercato, la globalizzazione, la deindustrializzazione) di fronte alle quali ogni tentativo di resistenza è ridotto al balbettio.

Le lotte dei lavoratori, la loro “capacità istituente”, la rete internazionale di solidarietà e sostegno reciproco, sono viste come un ricordo lontano del passato che mai più ritornerà.

Robert Castel ci aveva aiutato a capire nel suo lavoro di ricostruzione storica come: «esiste in effetti, lo si verificherà sulla lunga durata, una forte correlazione tra il posto occupato nella divisione sociale del lavoro e la partecipazione alle reti di sociabilità e ai sistemi di protezione che “coprono” un individuo di fronte ai rischi dell’esistenza” (R. Castel, Le metamorfosi della questione sociale. Una cronaca del salariato, Mimesis, Milano-udine 2019, p. 45).

La precarizzazione del lavoro ha creato vite precarie, pensieri corti, emozioni deboli, legami minimi, senso di appartenenza inesistente. Ha contribuito alla percezione del rischio e alla liquefazione dei legami di solidarietà tra i lavoratori. Sappiamo, invece, che dove si creano le condizioni di una maggiore stabilità e di misure di sostegno alla genitorialità, il lavoro aumenta sia in quantità che in qualità. È allora, perché gettare milioni di persone in questo maelstrom?

Da un lato, viviamo un presente che accelera sempre di più con il suo carico di stimoli nervosi che non lascia spazio al pensiero e al silenzio, un caleidoscopio di simboli che la mente fa fatica a decifrare ingolfando i canali della memoria e dell’immaginazione, dall’altro, in questa iper-modernità (o post-modernità) alcuni diritti e alcune certezze sono ancora legate al lavoro salariato e retribuito le cui radici affondano nella rivoluzione industriale e nelle lotte dei lavoratori del Novecento.

Un passato remoto prova a convivere con uno scenario da ibridamento tecnologico e post-umano. In questa tensione tra passato e futuro molte vite “perdono senso” e la depressione diventa la cifra di molte esistenze.

Reddito di esistenza

Pisani è convinto che sia impossibile pensare ai diritti senza il mercato: «la possibilità di dare nuova linfa alla democrazia dipenderà dalla capacità di riarticolare le forme della relazione e della decisione al cuore stesso del mercato, vincendo le forze contrarie, rifuggendo il ripiegamento in oasi felici, fuori dalle grinfie del nemico, affiancando alla creazione la capacità di confliggere e farsi spazio. Perché non si vince l’inferno ignorandolo, ma togliendogli spazio, guadagnando terreno, che significa, evocando un famoso passo di Calvino, «riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio» (pp. 221-222).

Pisani è convinto che nelle forme partecipative di lavoro associato si possano creare quelle forme di resistenza all’alienazione ma solo assumendo il mercato come terreno di decostruzione, attraverso una riappropriazione dello spazio di decisione (p. 215).

Per questo motivo propone un reddito di esistenza universale come riconoscimento della possibilità della persona di esistere dignitosamente indipendentemente dal posto che ciascuno occupa all’interno del mercato (p. 196).

Nuova radicalità

Non ho nessuna difficoltà ad accettare ipotesi come quella del reddito di esistenza universale come proposta da Pisani e da altri.

Così come non ho visto con sospetto l’ipotesi di De Masi di lavorare gratis. Ogni tentativo di affrontare la questione del lavoro deve essere sperimentata sul campo.

Tuttavia, comincio ad avere quell’età e quell’esperienza di vita in cui si conosce il proprio nemico quasi meglio di come si conosce se stessi. Il cosiddetto libero mercato è stato abilissimo a convincerci di essere modificabile, redimibile. Ci ha convinto che, prima o poi, la tendenza al bene sarà prevalente sugli istinti alla rapina, al saccheggio, alla devastazione. Dobbiamo solo aspettare e, un giorno, ogni azienda su questa terra sarà ecologica, solidale, comunitaria.

Tra quanto tempo? Nessuno può saperlo ma occorre avere fiducia. Le tendenze positive sono già in atto e sono inarrestabili.

Purtroppo non credo affatto a questa narrazione. C’è nel meccanismo di accumulazione capitalistica un origine perversa che non è possibile eliminare del tutto. Si può provare a mitigare le devastazioni e a creare realtà produttive più attente ai bisogni delle persone (resta sempre valida l’ipotesi di Adriano Olivetti) ma se guardiamo al mercato globale oggi, siamo lontanissimi da un idea di sviluppo sostenibile, ecologico, centrato sulla persona.

La disoccupazione è strutturale al mercato, è un prodotto del mercato. Induce milioni di lavoratori alla dipendenza, alla passività, all’indeterminazione. L’ipotesi che si possa creare nuova soggettività dentro il mercato è ipotesi storicamente verificata.

I lavoratori possono aggregarsi, lottare per i propri diritti, rivendicare il salario, migliorare le proprie condizioni di vita. Questa è la storia del movimento dei lavoratori. Una storia importantissima che ci ha reso tutti più liberi.

Tuttavia, quando il lavoratore smette di lottare per i prodi diritti e per una nuova coscienza e comincia a sognare la merce, a desiderare il capitale, la proprietà, il potere, la notorietà, diventa nuovamente una vittima del suo stesso desiderio, uno schiavo del suo stesso bisogno di godimento.

Gli esseri umani sembrano diventati incapaci di essere fratelli, di provare una spontanea attrazione per il prossimo, per i suoi bisogni, per il suo volto.

Freddi, distaccati, attratti più dall’inanimato della merce che dall’anima pulsante della vita. Non è dentro il mercato che si possono trovare gli spazi di affermazione di una nuova coscienza.

Raimon Panikkar ha scritto: « “purificazione del cuore”: non avere paura né di sé né degli altri. In questo sta la nuova innocenza. Questo è ciò che conta: non perdiamo tempo in teorie. Pensare di poter sistemare e risolvere tutto è un errore. Il mistero della vita è che il male esiste, che le tensioni non possono essere soppresse e che noi ci siamo dentro; che si deve fare il possibile, senza lasciarsi dominare e senza mai ritenere di possedere la verità assoluta. Bisogna accettare la condizione umana, sapere che un certo dubitare non si oppone alla fede; sapere che il senso di contingenza è necessario alla nostra vita. Devo rendermi conto che sono una parte di questa realtà e che non spetta a me controllarla; scoprire il senso della vita nella gioia, nella sofferenza, nelle passioni; invece di lamentare la difficoltà del vivere, rimandando ad un giorno che non arriva mai il momento di godere profondamente di questa vita, trovare questo senso in ogni istante” (La nuova innocenza: innocenza cosciente, Servitium editrice, Gorle 2009, p. 197).

Se c’è una strada da percorrere oggi va ricercata in un diverso rapporto con sé stessi, profondo ed emozionale, che ci permetta di andare al centro dei bisogni, per poterne verificare la validità e l’eventuale inganno.

Questo ci permetterà di ripensare il lavoro, la produzione, i rapporti di forza e quindi il potere stesso. Senza questa nuova innocenza, proveremo solo a dare risposte parziali. Utili per oggi, forse, inservibili per domani.

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