Welfare
Welfare aziendale, meno mongolfiere e più mutua
La Rete Welfare responsabile, che raccoglie 18 atenei ed è guidata dal sociologo della Cattolica, Vincenzo Cesareo, ha messo a confronto grandi realtà aziendali ed esperienze innovative territoriali capaci di riunire le piccole imprese o consorziare, dal lato dell'offerta e della progettazione, le cooperative sociali da Nord a Sud del Paese. La critica: troppe prestazioni dedicate al tempo libero
«Ci chiedono gli affitti per i figli fuori sede, spese per animali domestici», Marco Corcione, hr manager del Gruppo Mondadori, racconta come il welfare aziendale sia diventato «qualcosa di molto vivo, uno strumento indispensabile» e di come i lavoratori chiedano di allargare il novero delle prestazioni ad altre forme di tutela della famiglia o degli affetti, come per esempio un animale di compagnia.
Un convegno, quello della rete Rete Welfare responsabile oggi alla Cattolica di Milano, che raccoglie università – ormai 18 – , che era programmato da tempo ma che cade però a pochi giorni dall’insediamento di un nuovo governo, la cui presidente ha citato, per la prima volta nella storia repubblicana, il welfare aziende.
«È indispensabile intervenire con misure volte ad accrescere il reddito disponibile delle famiglie, partendo dalla riduzione delle imposte sui premi di produttività, dall’innalzamento ulteriore della soglia di esenzione dei cosiddetti fringe benefit e dal potenziamento del welfare aziendale», aveva detto infatti Giorgia Meloni alla Camera, nei giorni scorsi.
Nell’aula Pio XI dell’ateneo di padre Gemelli si è parlato molto di forme di integrazione previdenziale a misure di sostegno alla conciliazione vita-lavoro fino ad agevolazioni di carattere commerciale, rimborsi per l’istruzione e l’educazione dei figli, servizi per il tempo libero.
«Sono tante e di diverso tipo le proposte di Welfare aziendale erogate dalle imprese in aggiunta al salario o in alternativa anche parziale alla sua componente variabile legata al Premio di risultato», recitava una nota degli organizzatori che si riproponevano, in questa sede di analizzare un aspetto spesso meno pubblicizzato, quello delle ricadute che questi benefit possono avere sul territorio e sulla comunità locale. In grado cioè di mettere in moto un circolo virtuoso tale da far intersecare gli ambiti di Welfare municipale, comunitario e familiare.
Senza tornare al capitalismo paternalistico dei Crespi e dei Pirelli e dei loro villaggi operai, evocati da Ferruccio De Bortoli in apertura, alcune esperienze aziendali chiamate come case-histories hanno certamente questo taglio. Come le due esperienze del gruppo Arvedi di Cremona, sia la storica acciaieria lungo il Po, sia quella, recentemente acquisita, di Terni, ossia la Acciai Speciali. I due direttori delle risorse umane, Elenora Ferri, per la prima, e Giovanni Scordo, e per la seconda, hanno raccontato di un gruppo industriale che si pensa sul territorio, con stakeholder a cui riferirsi, in termini di restituzione sociale, culturale, ambientale, e dimostrando in questo che il welfare aziendale è stretto parente della responsabilità sociale di impresa e che il benessere dei dipendenti non può essere troppo e troppo a lungo disgiunto da quelle delle comunità in cui questi dipendenti sono inseriti.
La cassa mutua di Terni
Un caso di scuola, in questo senso, lo offre proprio la cassa mutua della Acciai Speciali che, durante la pandemia, quando gli ospedali erano in difficoltà a erogare prestazioni, ha aperto i propri ambulatori per sei mesi filati alla comunità locale, assicurando cure odontoiatriche, fisioterapiche, visite specialistiche.
Una storia cinquantennale, quella della cassa mutua della Terni, ora in Arvedi, con un’assistenza sanitaria «erogata in loco, con uno spazio che è un modello logistico-sanitario», dice Scordo, spiegando che il modello è mutualistico, con una trattenuta commisurata al salario, dell’ 1,5% della retribuzione lorda mensile, accompagnata da un sistema minimo di tickets a prestazione che, aggiunge, «crea ogni anno un tesoretto che consente di erogare molte prestazioni, 24mila prestazioni, di cui 9.500 odontoiatria e circa 1.000 fisioterapia». Beneficiari i dipendenti, ovviamente, ma anche i famigliari. «Meno fringe benefits e più welfare nobile», dice Scordo, riecheggiando quello che aveva detto il sociologo Luca Pesenti, anche lui della Cattolica, nell’introduzione: «Forse si è esagerato con il loisir, col divertimento», aveva detto il professore, «troppi giri in mongolfiera e viaggi estremi, anziché servizi alla persona. Non si può dimenticare che sono comunque attività che godono di un beneficio fiscale».
Quello che emerge, a sentire quelli che una volta venivano definiti i direttori del personale, ormai il welfare aziendale e le sue prestazioni sono diventati una leva con cui attrarre i talenti, soprattutto quelli giovani, e trattenere altri profili, in epoca di “great resignations”, le “grandi dimissioni” che vedono molti lavoratori abbandonare contesti professionali non soddisfacenti innanzitutto dal punto di vista del clima aziendale. «Quando mi capita di parlare con i collaboratori della parte digital, magari con una retribuzione bassa, capisco che la conciliazione vita-lavoro è diventata decisiva», spiega Corcione, «per cui il welfare e anche la possibilità di smartworking diventano decisivi nella scelta dei lavoratori». Un dato che conferma Giuseppe Ippolito, responsabile delle relazioni industriali di Iren, che racconta la decisione della grande multiutility sovra-regionale (quasi 5 miliardi di fatturato fra Piemonte, Liguria, Emilia) di siglare un accordo con le organizzazioni sindacali per garantire 10 giorni al mese di lavoro da remoto. «Su oltre 10mila dipendenti», aggiunge, «abbiamo però oltre 5mila operai, per i quali lo smart working non era praticabile. A loro siamo andati incontro migliorando le condizioni di lavoro: per alcuni spingendo sulla digitalizzazione, vale a dire fornendo smartphone personali, e per altri alleggerendo gli aspetti logistici fornendo la macchina aziendale, in modo da consentire di recarsi sui cantieri direttamente da casa, senza dover passare dalle sedi».
Politiche che però hanno bisogno di un quadro certo, prosegue Ippolito: «Bisogna che la detassazione sia stabile, non si può procedere a colpi di bonus, di anno in anno. Ed ovviamente necessaria la semplificazione: abbiamo spesso difficoltà a seguire la normativa», racconta il dirigente, che conclude invocando «meno Stato più azienda», un claim che spiega con la necessità di dare alle imprese «la possibilità di entrare in maniera positiva sui temi che maneggiano solo loro con competenza, perché hanno relazioni con i cittadini, con i lavoratori, con le organizzazioni sindacali».
Il welfare si fa territoriale
Un welfare che sempre più diventa territoriale, in grado di unire quelle piccole imprese che non avrebbero quella strutturazione delle risorse umano in grado di provvedere da sole: come ricorda l’esperienza padovana di Innova Srl, il cui co-fondatore, Fabio Streliotto, ha ripercorso il ricorso virtuoso agli enti bilaterali della Regione Veneto per costruire reti di welfare o come, in Val Seriana, nella Bergamasca, come hanno fatto vari comuni, aziende, enti di Terzo settore, complessivamente per oltre 2mila lavoratori, come ha raccontato Sara Roberti dell’Alleanza nata ad hoc. Il territorio del progetto ComeTe, invece, è l’Italia intera: si tratta di un network di cooperative sociali riunite nel Consorzio Fiber, 17 realtà imprenditoriali che aggregano oltre 100 cooperative socie per oltre 50mila socie e lavoratori che co-progettano con aziende – dal Hera a Trenord, dalla Camst a Intesa Sanpaolo – soluzioni di welfare focalizzate sulla cura e il benessere personale e familiare, come ha spiegato Paolo Schipani, direttore generale.
Esperienze interessanti che confermano l’importanza del lavoro della Rete guidata dal professor Vincenzo Cesareo, ossia individuare esperienze innovative, realizzare sistematici rapporti, elaborare proposte. Un’esperienza di ricerca sociale capace di dare strumenti innovativi al mondo imprenditoriale, quando cioè la cosiddetta “terza missione” dell’accademia diventa orizzonte di lavoro. Un momento concreto di quella che si vuole “trasformazione produttiva delle conoscenze”.
Leggi lo speciale VITA Focus sul welfare aziendale del maggio scorso.
Cosa fa VITA?
Da 30 anni VITA è la testata di riferimento dell’innovazione sociale, dell’attivismo civico e del Terzo settore. Siamo un’impresa sociale senza scopo di lucro: raccontiamo storie, promuoviamo campagne, interpelliamo le imprese, la politica e le istituzioni per promuovere i valori dell’interesse generale e del bene comune. Se riusciamo a farlo è grazie a chi decide di sostenerci.