Welfare

Welfare aziendale, la nuova frontiera per il terzo settore

Per il professor Alessandro Venturi la nuova sfida dei provvedimenti di welfare aziendale, a cui è dedicato il nuovo Vita bookazine, può rappresentare il futuro del non profit. A patto che le organizzazioni sappiano sganciarsi dalla loro dipendenza al settore pubblico e diventare protagonisti di un nuovo mercato sociale

di Gabriella Meroni

La rivoluzione del welfare è dietro l'angolo. Non solo per gli interventi della legge di Stabilità, che ha detassato molti provvedimenti di welfare aziendale e potenziato i voucher per l'acquisto di prestazioni e servizi, ma soprattutto per la pressione dei bisogni e il peso dei costi, che appesantiscono il vecchio Stato sociale e lasciano spazio al cosiddetto "secondo welfare": le prestazioni economiche o in servizi estranee alla spesa pubblica. A questo tema è dedicato il numero di aprile di Vita, che si presenta in un formato e in contenuti completamente nuovi. E su questo tema abbiamo chiesto l'autorevole parere del professor Alessandro Venturi, docente di Diritto regionale e degli enti locali all’università di Pavia.

Professor Venturi, nel 1960 gli over 65 erano il 14% del totale della popolazione con più di 15 anni, nel 2040 questa quota sarà pari al 50%. La domanda previdenziale e socio-sanitaria inevitabilmente nel prossimo futuro esploderà. Come questo fenomeno impatterà sul welfare così come lo conosciamo oggi?

I diritti sociali sanciti dalla Costituzione ci hanno sempre portato a immaginare il welfare come un sistema uguale per tutti, indifferenziato, che eroga prestazioni e servizi anonimi per beneficiari anonimi. Parliamo di risposte standard, che però oggi sono in fase recessiva perché così come il mercato del lavoro è cambiato, sono cambiati anche i bisogni dei lavoratori. Prendiamo gli asili nido: oggi sono in crisi non solo per la congiuntura economica, ma soprattutto perché gli orari di lavoro delle donne sono sempre più flessibili, e un servizio a tempo pieno dai costi elevati è superato. Dobbiamo quindi passare da un welfare stanrdardizzato a un welfare personalizzato.

Sta parlando del secondo welfare?

Sto parlando di un ripensamento generale del welfare pubblico, che non dovrebbe più essere una semplice ridistribuzione di servizi uguali ma innanzitutto la costruzione di un mercato sociale su misura rispetto ai nuovi bisogni dei cittadini, in cui si muovano soggetti diversi, dalle aziende al terzo settore. Certamente questo comprende anche il welfare aziendale, che però in Italia per ora è limitato ad alcune grandi aziende.

Lei non crede quindi che le aziende potranno diventare protagoniste dell'offerta di servizi sociali?

Non direttamente. In base alla realtà italiana, caratterizzata da piccole e medie imprese e da un terzo settore ben radicato nella società, io credo che il futuro del welfare sarà piuttosto costuito da reti territoriali in cui aziende, associazioni, cooperative agganceranno i bisogni dei lavoratori delle pmi. In una parola, nel nostro paese il welfare aziendale decollerà solo se sarà territoriale e inclusivo, altrimenti rischieremo di avere un welfare di serie A – quello dei dipendenti di grandi aziende, iperprotetti e ipertutelati – e uno di serie B, quello pubblico, che raccoglierà le macerie. Ma ovviamente tutto questo non è sostenibile.

Il terzo settore italiano secondo lei ha i numeri e le capacità per raccogliere questa sfida?

L'Italia ha una ricchezza straordinaria, una vera big society di matrice inclusiva, e una miriade di organizzazioni non profit attive e presenti sul territorio. Per essere all'altezza della sfida però il terzo settore deve cambiare, crescere ed evolversi, sganciandosi dalla dipendenza dal pubblico e trasformandosi nel volano che metta in rete le pmi, le sensibilizzi, intercetti i bisogni e trasferisca ai territori le risposte, ovviamente non solo riservate ai dipendenti ma a tutti i cittadini. In questo modo il cittadino avrà a disposizione i servizi che gli servono, gestiti dal terzo settore e finanziati in parte dal pubblico e in parte dalle aziende, in un'ottica win win che punta alla sostenibilità e garantisce valore. In Lombardia per esempio sono attive le Reti territoriali per la conciliazione, un modello vincente che realizza proprio questa alleanza tra pubblico, privato e non profit, a tutto vantaggio dei cittadini.

La legge di stabilità ha introdotto anche vantaggi per quanto riguarda l'utilizzo dei voucher per l'acquisto di servizi e prestazioni sociali. Che ne pensa?

Il voucher ha grandi potenzialità in Italia, a patto che si scelga di finalizzarne la spesa, vincolandola a determinate prestazioni sociali. Da noi la spesa sociale è ancora troppo monetizzata, e si sa che i contributi in denaro possono anche andare a scopi diversi da quelli per cui vengono erogati, oltre a contribuire a un appiattimento dei servizi. Il voucher invece spinge alla competizione tra attori sociali in vista di una maggiore qualità. Ma c'è una condizione imprescindibile perché i voucher funzionino davvero…

Quale?

La creazione di un mercato sociale solido e variegato, composto da diversi soggetti, anche e soprattutto non profit. In questi ultimi però deve scattare una nuova consapevolezza: quella di poter diventare i veri fornitori del welfare aziendale. Serve tanto coraggio: coraggio per innovare, intercettare la domanda e identificare i nuovi soggetti fragili, che oggi sono i tanti lavoratori, ma sopratutto lavoratrici 40-50enni schiacciate tra i bisogni dei figi e quelli dei genitori anziani. Chi risponderà alle loro esigenze?

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