Welfare
We are Barbie: così mercato e diversity camminano insieme
Mattel ha lanciato una Barbie con i tratti tipici della sindrome di Down: serve davvero all'inclusione? Piace l'idea di dare rappresentanza a bambine che finora non si sono mai riconosciute in una bambola. E anche il fatto che venga "sdoganata" la diversity come opportunità di business. In dialogo con Martina Fuga e Carlotta Jesi
C’è la Barbie in carrozzina, quella curvy, quella con i capelli afro e quella con la vitiligine. Da tempo la diversity è un tema centrale del magico mondo di Barbie, tanto che – afferma con orgoglio la Mattel – «Barbie attualmente propone quattro tipi di corpo, sette tonalità della pelle, 24 acconciature di capelli».
Da martedì 25 aprile 2023 in tutto il mondo all’interno della linea “Barbie Fashionistas” c’è anche una Barbie con i tratti tipici della sindrome di Down. Il taglio degli occhi a mandorla, il viso più tondo, la statura un po’ più bassa, i fianchi un po’ più larghi e un ciondolo che rappresenta il terzo cromosoma 21 che le persone con SDD hanno. Il progetto è stato realizzato insieme alla National Down Syndrome Society (NDSS) e ha l’obiettivo dichiarato di dare ad ogni bambina e bambino la possibilità di vedersi rappresentato, così com’è. «Questo significa molto per la nostra comunità, che per la prima volta può giocare con una bambola Barbie che ci assomiglia», ha dichiarato nel comunicato ufficiale Kandi Pickard, presidente di National Down Syndrome Society. «Questa Barbie ci ricorda che non dovremmo mai sottovalutare il potere della rappresentazione. È un enorme passo avanti per l'inclusione». A lanciare la bambola è stata chiamata (fra altre) la modella britannica Ellie Goldstein, che ha sottolineato l’altra faccia della medaglia rispetto al riconoscimento, quella dell’educazione alla differenza: «Così i bambini possono imparare che siamo tutti diversi», ha detto. La stessa modella – a proposito di forza della rappresentazione – in questi giorni campeggia nella cover story di Vogue British, intitolata Reframing Fashion.
Benvenuta alla nuova Barbie quindi, senza ombra di dubbio. Ma davvero è una milestone così rivoluzionaria nella costruzione di una società più inclusiva? O pensare anche solo di domandarselo è benaltrismo? Bambolotti con sindrome di Down sono in commercio almeno dal 2007: che diffusione hanno avuto? Hanno permesso alle bambine e ai bambini con sindrome di Down che ci hanno giocato di rispecchiarsi? Quanti genitori hanno regalato questa bambola ai loro figli, senza che in famiglia o nella cerchia amicale ci fosse qualcuno con la sindrome? Quanto invece attraverso quella bambola tutti i bambini (e i loro genitori) hanno un po' familiarizzato con la diversità? Il timore è che accada qualcosa di simile a quel fenomeno che da un po’ di tempo (troppo) a questa parte si registra nei libri per bambini: tutti libri istruttivi o educativi, tutti a voler plasmare bambine ribelli o a trasmettere messaggi importanti, dall’Alzheimer del nonno alla nascita di un fratellino. I bambini li ascoltano, ma poi ti chiedono di leggere un milione di volte Giulio Coniglio e i Tre porcellini.
La potenza della rappresentazione
«Quando Emma aveva un anno lessi di un’azienda di giocattoli spagnola che aveva prodotto una bambola con sindrome di Down. La comprai subito senza avere le idee chiarissime se quel giocattolo potesse avere un valore per mia figlia», ricorda Martina Fuga, responsabile della comunicazione di CoorDown. Oggi che Emma ha quasi 18 anni «posso dire per esperienza che le servì a vedersi rappresentata, servì nella narrazione della disabilità di Emma con i suoi fratelli, servì con gli amichetti e le amichette. Attraverso il gioco i bambini e le bambine possono sperimentare le sfumature della natura umana, possono conoscersi meglio, possono sviluppare un immaginario più ampio e variegato. Quindi benvenuto Barbie con sindrome di Down. Sì, anche una bambola può aiutare l’inclusione».
Fuga è «entusiasta» della nuova Barbie. Gli elementi potenti – dice – sono tre: «Il primo ovviamente è il fatto che stiamo parlando di Barbie. Il bambolotto spagnolo che acquistai per mia figlia era il progetto di un’associazione, una cosa di nicchia per una nicchia. Barbie è un’altra cosa, a livello di immaginario. Mattel peraltro sta facendo un percorso nella rappresentazione della diversity da molti anni e apprezzo particolarmente questo suo procedere passo dopo passo: se fosse solo una questione di prodotto, avrebbero potuto lanciare la Barbie con sindrome di Down anni fa, non lo hanno fatto. Nelle loro pubblicità ci sono da anni bambini e bambine con disabilità, senza neanche che la cosa sia stata sottolineata, come una evoluzione naturale. Interessante e da non sottovalutare il legame con la National Down Syndrome Society, averli consultati e coinvolti è importante perché vuol dire chiedere il parere ai diretti interessati. E anche la comunicazione fatta in questi giorni mi pare apprezzabile».
Secondo punto, che a ben guardare è il primo, è il tema della rappresentazione: «Dobbiamo fare uno sforzo e immaginarci cosa vuol dire per un bambino andare in un negozio di giocattoli e vedere sempre solo bambole bionde, con la pelle bianca e gli occhi azzurri. Noi ci chiediamo se serve veramente una rappresentazione diversa, ma si tratta del nostro sguardo privilegiato. A noi non serve, evidentemente, ma a chi da quella rappresentazione non è rappresentato invece sì», dice Fuga. Per questo apprezza particolarmente la quantità di profili e condizioni della linea Fashionistas, quella foto con una molteplicità di bambole diverse e il claim “We are Barbie”: tutte queste bambole diverse sono Barbie e Barbie è tutte loro, “the most diverse doll line”. «Un messaggio non deve essere per forza etico, non è che tutto ci deve per forza insegnare qualcosa, è vero, ma qui il senso è molto più pulito: è la rappresentazione, il fatto che ci sono dei bambini che da oggi non si sentiranno più invisibili ma nella rappresentazione realtà d’ora in avanti ci saranno, alla stessa stregua degli altri. È un passo importante», aggiunge.
E la componente di marketing, il fatto che la diversity oggi fa vendere? Ecco il terzo punto importante. «Alcune volte è il diversity washing c’è, ma in questo caso non mi porrei nemmeno la questione, proprio per il percorso che l’azienda ha fatto. È chiaro che ci sono aziende che sono preparate e altre un po’ naif», risponde Fuga, forte anche dell’osservatorio rappresentato dalle aziende che contattano CoorDown per inserire persone con sindrome di Down nei propri organici, obiettivo della campagna “The hiring chain”. «Tutte le ricerche dicono che i consumatori oggi preferiscono acquistare prodotti di brand che hanno nei loro purpose certi valori, quindi è chiaro che le aziende vadano in questa direzione. È anche vero che se una cosa funziona e ha valore per una comunità che è sottorappresentata, è davvero così importante se l’azienda lo fa perché pensa di rispondere meglio agli input che arrivano dal mercato? Che cosa c’è di male nel fatto che un’azienda decida di cambiare perché prende atto che oggi il mondo e i consumatori sono cambiati e chiedono altro?».
La diversity come opportunità di business
Diversità e disabilità sono anche un’opportunità di business, diciamocelo apertamente. E non necessariamente questo è un male. È questo l’invito di Carlotta Jesi – acuta osservatrice del mondo aziendale, fondatrice di Radiomamma e consulente sui temi di inclusion e diversity – nel commentare la cover di Vogue British dedicata a 19 persone con disabilità che appartengono al mondo dello sport, dell’arte, dell’attivismo e che stanno cambiando il mondo della moda. «Senza tanti giri di parole si fa anche riferimento alla diversità e alla disabilità come opportunità di business… cosa che magari irriterà qualcuno ma che alla fine è ciò che aiuta a spingere il cambiamento. Io l’ho visto succedere con Radiomamma sul fronte dell’attenzione alla famiglia: all’epoca la famiglia era vista come una scocciaura, una cosa in più da gestire. Quando abbiamo iniziato a dire che è un’opportunità anche di business, questo ha spinto il cambiamento», racconta Jesi.
Ecco allora la libertà di dirci con franchezza che «le imprese sono mosse dal mercato e i dati dicono che la disabilità è un mercato, secondo alcuni – considerando anche le persone con impedimenti transitori o dovuti all’invecchiamento – è un mercato grande quanto la Cina. Il tema è capire intanto come vengono fatte le cose: se si resta in superficie si fa solo diversity washing, se l’azienda fa un determinato percorso, se per esempio ha una certificazione sulla parità di genere o sulla diversity è un’altra cosa. Vogue ha ideato la sua copertina con un’attivista, Mattel ha immaginato la Barbie con un’associazione: sarebbe fantastico per esempio se accanto alla bambola ci fosse una campagna che faccia riflettere sull’abilismo, che inviti a cambiare il linguaggio pietistico con cui ancora troppo spesso si racconta la disabilità». Oggi il pubblico peraltro si accorge immediatamente delle azioni “di facciata”, mette in guardia Jesi, «e queste diventano dei boomerang: sono di questi giorni i problemi che Nike e Bud hanno avuto con le loro campagne affidate a Dylan Mulvaney, influencer transgender, il cui messaggio ha riproposto stereotipi sulle donne ed è suonato come una parodia di ciò che le donne sono».
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