Volontariato

Vukovar: Direzione Novi Sad

Continua il viaggio della nave di Osservatorio. In serata l'arrivo a Vukovar

di Massimo Gnone

Vukovar: Ore 7 Stamattina sveglia presto, dopo una notte popolata dalle luci di Budapest, i suoi ponti lanciati oltre il corso del grande fiume, i palazzi fantastici come costruzioni di sabbia bagnata, le chiatte pesanti che galleggiano a fatica, anguille morte trascinate dalla corrente (eppure il Danubio sembra immobile). Tram gialli sfrecciano veloci, sfidando il traffico. Fate in fretta, i pullman stanno già aspettando. I compagni di viaggio dell’Osservatorio si ricompattano dopo un meritato riposo. La meta intermedia è Mohács, città di confine fra Ungheria e Croazia, dove è previsto il trasferimento sulla barca. La strada per Vukovar è lunga. Ore 14 Zuppa di pesce. L’equipaggio ungherese del Györ si agita intorno ai fornelli e la barca prosegue la sua corsa da sogno verso sud. La sponda destra del Danubio è Croazia, la destra è Serbia & Montenegro. Navighiamo lungo un confine di stato che soltanto qualche anno fa non esisteva. Ore 17 Il trentino Renato Morelli, regista, musicologo, fisarmonicista e molte altre cose insieme, mi racconta la pazza storia della “Orchestra della Nostalgia”: i Destrani Taraf – unione di nostalgia, in dialetto trentino, e orchestra, in rumeno -, dopo aver intrecciato la propria storia con la carovana danubiana, domani torneranno in Italia. Con Renato se ne vanno anche Corrado, al violino, Giovanni, alla chitarra, Paolo, al basso tuba, l’altro Paolo, alla tromba, Aleksey, alla fisarmonica, Zarina e Lucia, splendide voci. Ore 19 Impieghiamo molto a scendere dal battello. Due poliziotti croati a contorllare i passaporti. Fuori la musica ”pannonica” di un gruppo locale. I Destrani Taraf qui non hanno potuto suonare. ”Musica zingara, balcanica”, hanno detto quelli del comune, e qui non ci si sente balcanici, i Balcani sono oltre il fiume. I musicisti in abito nero e camice bianche. Un contrabbasso, una chitarra, un violino. Ma subito Aleksey, dei Destrani, s’aggiunge a loro. Alla faccia della musica ”pannonica”. Vukovar: Ore 9 La strada dedicata al “dr. Franjo Tudjman” e’ una linea che taglia in due il centro storico di Vukovar. Nella citta’ appoggiata al grande fiume, quarta tappa del viaggio organizzato dall’Osservatorio, fervono i lavori di ricostruzione. Una frenesia recente. Le grida degli operai rompono il silenzio del mattino e le ruspe spostano calcinacci. Eppure la bellezza architettonica della citta’ e’ persa per sempre. Proprio all’imbocco del centro e’ cresciuto un nuovissimo palazzo di specchi sulle cui vetrate si riflette un condominio che porta ancora i segni del fuoco e delle pallottole. Addentrandosi nel centro si alternano tetti crollati a negozi di fiori, macerie a promesse. Sulla citta’ incombe la massiccia, e mille volte vista in tv, torre dell’acqua violentata dall’artiglieria, fungo rimasto vittima dei morsi di un gigante vorace. La torre e’ simbolo della citta’ e di quel 1991 chiuso con l’esercito federale jugoslavo che lascio’ mano libera alle milizie mercenarie per vincere le difese della citta’. Fu strage. Ignorata dai media la battaglia era solo il preludio di un decennio di sangue. Ore 10 Il centro pastorale di Vukovar e’ leggermente rialzato rispetto al resto della citta’. Un piazzale in fondo al quale una chiesa restrutturata, al suo fianco una palazzina: vetro, acciaio e cemento. Sul retro della palazzina un prato con una vista sul Danubio impigliata in una rete metallica. Aiuole curate, con erba da poco piantata. E’ un forte contrasto con i moltissimi edifici a respirare il cielo, le finestre dei grattacieli dove la gente s’affaccia tra i fiori delle granate, con i cantieri che sembrano essere riattivati solo ora. “Sono per l’Europa, ma un’Europa capace di rispettare le identita’” con questa frase ci accoglie don Zlatko Spehar, padrone di casa. E’ una frase ambigua in un luogo dove l’identita’ e’ stata ricercata con affanno, dove ha significato contrapposizione. Don Spehari, con un aspetto gentile ed un approccio da educatore cammina su di un crinale pericoloso, quello che divide la consapevolezza delle proprie radici e della propria cultura dal conservatorismo nazionalista. E’ un crinale sottile ma ingombrante che ci riportiamo tutt’intero nell’autobus, ritornando all’albergo Dunav dopo il smeinario e ridiscutendo sull’intervento di don Spehari. Alcuni lo descrivono come un prete acuto che lotta contro il modello unico, la globalizzazione. Altri interpretano le sue posizioni come una chiusura nazionalista rispetto agli stimoli delle diversita’. E’ la complessita’ di questi luoghi difficili da comprendere. Che chiamiamo in transizione ma per molti aspetti rappresentano gia’ il postmoderno. “Impiegheremo 60 anni a raggiungere standard italiani” affermava oggi un professore di sociologia di Osjek, citta’ non lontana da Vukovar. Ma purtroppo non vi e’ un percorso rettilineo nemmeno se ci si “garantisce” con un lasso temporale cosi’ ampio, disilluso e senza speranze. Nel pomeriggio partiamo per Novi Sad, capitale della Vojvodina. Lo dobbiamo fare in autobus perche’ l’acqua e’ bassa e tra Croazia e Serbia vi sono delle secche. Domani s’aspetta un’onda di piena, e con essa anche la barca ci raggiungera’ ma per ora il fiume e’ stanco e lascia libere sottili linee di sabbia. Ore 18 Si viaggia in direzione Novi Sad, che nel 1999 subi’ i bombardamenti Nato. Stasera cena alla fortezza e domani seminario sul ruolo delle città e dei cittadini nella costruzione di una nuova Europa.


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