Siamo tutti contenti. Abbiamo esultato, ci siamo abbracciati, ci siamo scambiati il “cinque”, siamo tornati a casa convinti di aver compiuto un’impresa memorabile. E in fondo era vero. In piazza Montecitorio, il 7 luglio, non s’era mai vista una folla di carrozzine, stampelle, bastoni bianchi, gente che si parlava a segni, famiglie intere con ragazzi dal sorriso dolce: insomma il popolo delle persone con disabilità, a prendere il sole in compagnia, come in un raduno dal sapore di vacanza, ci mancavano i cestini di vimini con bibite e panini. In compenso c’erano le voci preoccupate, le frasi cariche di paura e di rabbia, il tam tam dell’indignazione incredula. Grande vittoria quella di mettere insieme singoli e associazioni, sigle famose e storiche accanto a piccole comunità nate dal bisogno e dai diritti negati. Suggestivo ed emozionante vedere fianco a fianco i presidenti delle grandi federazioni di disabili.
Ma poi siamo tornati a casa, e le furbate del Palazzo hanno ricominciato a filtrare attraverso notizie strappate a fatica dai lavori estenuati della Commissione Bilancio del Senato, crocevia delle pressioni di un Paese che cerca sempre la scorciatoia per non pagare il dazio dei sacrifici giusti, comprensibili. Ci hanno provato di nuovo nel settore più fragile e strategico, quello della scuola. Salvo fare l’ennesima ridicola figuraccia, addirittura la smentita dell’emendamento: “Non vogliamo che si creda che noi credessimo che volevamo toccare l’integrazione scolastica”… Parole appena meno sconnesse di quelle che ho usato io adesso, ma la sostanza è proprio questa. Una risata, solo una risata potrebbe seppellire questa pochezza umana e politica. Ma non c’è neppure il fiato per ridere, fa troppo caldo, e soprattutto non ne vale la pena.
E poi ora dobbiamo stare lì, in apprensione, perché il voto di fiducia “prendere o lasciare” della manovra economica riguarda un testo che è stato maneggiato e pasticciato fino all’ultimo secondo, tanto che in realtà stanno votando a scatola chiusa, senza neppure conoscere il testo del maxiemendamento, che dunque potrebbe contenere altri “refusi” o altre porcherie, che scopriremo nei prossimi giorni. Magari non sarà così, magari.
Ma intanto abbiamo vinto nulla. Abbiamo vinto un pareggio. Un gioco dell’oca interminabile nel quale si passa sempre dal via perdendo ogni volta i punti che si erano accumulati. Sappiamo che dovremo vigilare ogni giorno, scegliendo con cura gli amici e guardandoci dai nemici. Dovremo chiamare a raccolta le persone più deboli per difendere i veri Lea, che sono i “livelli essenziali” delle conquiste fatte negli ultimi vent’anni di battaglie sociali e politiche. Indietro non si torna, andiamo avanti, ha detto giustamente Pietro Barbieri, presidente della Fish.
Lo penso anche io, ma vorrei vincere qualche battaglia positiva, non giocare solo in difesa. Vorrei vedere tanti giovani disabili avviati al lavoro con gioia, con convinzione, in aziende sane che non barano sulla legge ’68 dopo essersi riempite la bocca di responsabilità sociale d’impresa. Vorrei viaggiare e muovermi in città a misura di tutti, senza dover elemosinare una piattaforma che funziona, o un taxi che non c’è. Vorrei poter consigliare servizi alla persona efficienti, buone prassi da imitare, comuni virtuosi, regioni sensibili e attente a non discriminare. Vorrei sentirmi un cittadino senza aggettivi.
Vorrei vincere davvero.
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