Welfare

Volterra, il carcere a scena aperta

Da 17 anni insegna teatro dietro le sbarre. Adesso i suoi attori possono anche esibirsi all’esterno. Intervista ad Armando Punzo.

di Redazione

Ormai sono quasi 17 anni che trascorre le sue giornate rinchiuso nel carcere penale di Volterra. Ci è entrato nel 1988 «perché volevo fare teatro con dei non professionisti. E lì dentro mi sembrava ci fossero persone che potevano avere entusiasmo e tanto tempo a disposizione». Il regista Armando Punzo è da tempo un personaggio. Adesso lo è anche di successo. Il 2004 infatti è stato l?anno della svolta. Prima il lasciapassare che ha permesso alla sua Compagnia della Fortezza di esibirsi anche ?fuori?. Quindi il premio della casa editrice Ubu per «lo spettacolo dell?anno». Vita: I pescecani – ovvero quello che resta di Bertold Brecht recitato da una compagnia di attori detenuti: è davvero lo spettacolo migliore della stagione scorsa? Armando Punzo: Sì. Vita: Modesto da parte sua. Punzo: Sicuramente sono stati messi in scena spettacoli più belli. Ma questo lavoro aveva un grande senso. Una grande urgenza. Un premio ti viene dato anche perché in un determinato momento rappresenti qualcosa di più. Noi siamo riusciti ad essere davvero specchio del mondo in cui viviamo. Abbiamo rappresentato un?umanità corrotta e malata. La religione e la politica vissute come le stiamo vivendo non sono portatrici di valori e allora va riazzerato tutto. L?esistenza stessa del carcere è la prova provata che qualcosa fino ad oggi non ha funzionato. Vita: Un tunnel da cui è possibile uscire? Punzo: Sì. Nel momento in cui noi diciamo il male di questo mondo, offriamo la possibilità di pensare a una via di fuga. Oggi sembra che non ci siano alternative se non seguire il flusso. E invece no. La sopravvivenza stessa della Compagnia della Fortezza significa che è possibile intervenire sullo status quo. In questi anni la vita all?interno del carcere di Volterra è stata trasformata in modo radicale. Dopo il teatro è arrivata la scuola per geometri. E oggi Volterra è un caso pilota in Italia. Vita: Possibile che i migliori attori dell?anno siano dei non professionisti e carcerati per giunta? Punzo: Bravi o non bravi, che noia! Non è questo il punto. Io ho incontrato uomini straordinari che nella vita, per colpe loro, sono costretti a ripartire da una posizione svantaggiata. Vedere quello che riusciamo a fare insieme mi sembra fantastico. E più per noi che per loro. La loro trasformazione è un segno di speranza straordinario per tutta l?umanità. Vita: Ricevendo il premio, il primo ringraziamento è andato alla polizia penitenziaria. Perché? Punzo: Il carcere è stato inventato per contenere. Il teatro per aprire. È evidente che se gli agenti e la direttrice non fossero convinti tanto quanto lo siamo noi, in due giorni chiuderemmo. Vita: Dipende solo dal buon cuore dell?amministrazione quindi? Punzo: No. Dipende da me che da 17 anni sono convinto di stare tutti i giorni lì dentro. Questo viene prima di tutto. Poi dipende dai detenuti, che partecipano e capiscono il valore di quello che fanno. Infine dipende anche dall?istituzione che ti ospita. Non dobbiamo nascondercelo. Vita: Gli attori sono pagati? Punzo: Certo. Quando siamo in tournée vengono assunti per la durata delle rappresentazioni con il minimo sindacale: 65 euro al giorno più vitto, alloggio e contributi. Ma non tutti hanno il permesso per uscire in articolo 21. Vita: Il modello Volterra è esportabile? Punzo: In qualsiasi posto. È solo un problema di dedizione, tempo e investimenti. Non credo vi sia un carcere o un motivo ragionevole per cui non farlo. Vita: Lei propone un teatro di denuncia che si avvale di testi anche complessi. Ritiene i detenuti culturalmente in grado di comprendere quello che fanno? Punzo: Il teatro è lo specchio della realtà e quindi dovrebbe essere sempre di denuncia. Non condivido l?idea di un teatro che accompagna e sostiene la società. Il nostro compito è di far aprire gli occhi al pubblico. Quanto ai detenuti non sono certo soggetti scolarizzati. La comprensione del testo non è il risultato di un percorso accademico, ma di esperienze personali. Loro conoscono perfettamente quali sono e dove portano i drammi di questo mondo. Sono persone che hanno percorso strade sbagliate e che sanno distinguere intuitivamente il bene dal male. Vita: Dopo 17 anni come si riesce a conservare entusiasmo e motivazione? Punzo: Non sopporto il buonismo. Se il mio obiettivo fosse di alleviare il peso della pena, sarei già stato vittima della frustrazione. Quello che voglio è fare teatro con persone che non fanno gli attori. Voglio dare un colpo allo stomaco a tutti i cliché del teatro convenzionale. Solo con questa prospettiva si può comprendere perché la mia motivazione è ancora più radicale che 17 anni fa. Il carcere mi occorre per mostrare quello che molti non vogliono vedere o che è difficile vedere. Vita: Subisce il fascino delle sbarre? Punzo: Se vado via per qualche tempo, soffro. Però mi mancano le persone, non certo il luogo fisico. Con alcuni di loro condivido un?esperienza da 10/12 anni. Quando non li vedo rimpiango lo spazio e l?intimità che abbiamo creato insieme. Altri in questi anni sono usciti ed adesso fanno altri lavori, ma continuano ad esibirsi con noi. Vita: Dopo Brecht cosa ci aspetta? Punzo: Ogni mio spettacolo è legato a quello precedente e a quello successivo da un filo rosso. Dopo aver rappresentato la summa del male, vogliamo cercare qualcosa di positivo in questo mondo. Per questo chiederemo aiuto a Pasolini.


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