Non profit

Volontari per l’Africa? Cercateli a Nyahururu

In questa cittadina la comunità conta su 1.300 attivisti locali e animatori di comunità. Che si occupano gratis di prevenzione dell'Aids, disabili e microcredito

di Emanuela Citterio

da Nyahururu, Kenya
Aiuti o libero mercato? Alla vigilia dell’Africa day, la giornata internazionale dedicata all’Africa che ricorre il 25 maggio, il dibattito sull’efficacia degli aiuti è più che mai vivace. Soprattutto dopo il brillante Dead aid (appena tradotto in italiano da Rizzoli con il titolo La carità che uccide) dell’economista zambiana Dambisa Moyo. A Nyahururu, cittadina del Kenya trapassata dalla linea dell’equatore, quasi nessuno conosce Dambisa Moyo, eppure qui da 13 anni si sta sperimentando la via dello «sviluppo che parte dal basso» evocata nel suo libro, puntando su una risorsa ignorata: il volontariato africano. Il Saint Martin è una “community based organisation” che conta 1.300 volontari locali impegnati in sei programmi di intervento, dalla reintegrazione dei bambini di strada alla cura delle persone disabili, alla prevenzione dell’Aids, al microcredito, ai diritti umani. «Il sesto programma è il più importante di tutti», spiega Thomas Kihara, ex preside di scuola elementare e ora uno dei direttori della Cbo.
Il Saint Martin è nato nel 97 su impulso di un sacerdote inviato dalla diocesi di Padova, Gabriele Pipinato, e di un primo gruppo di 11 volontari kenyani. Oggi è un’organizzazione non profit formata da più di cento persone stipendiate e da una vasta rete di volontari attiva non solo nella cittadina, ma anche nei villaggi circostanti, molti dei quali sono raggiungibili solo percorrendo strade di terra battuta in mezzo alla savana. Nelle comunità i volontari vanno a visitare le famiglie in difficoltà, segnalano i casi di persone ammalate o disabili. «Nel profondo di ciascuno c’è l’interesse per l’altro, bisogna solo risvegliarlo», afferma Kihara.
Nella sede del Saint Martin oggi c’è Madoia Wangiro, attiva nel programma di prevenzione dell’Aids e nella cura dei malati. È casalinga, moglie di un contadino e madre di quattro figli e vive lontano dalla città. Dice di essere scettica sul fatto che chi viene dalla città possa capire i problemi del suo villaggio, figurarsi chi proviene da un’altra nazione: «Per questo mi sento responsabile», dice. «Il lavoro sull’Aids è molto impegnativo, ma la prima cosa che mi convince è che questa è la nostra gente, si tratta dei nostri figli e dei nostri amici». Nel suo villaggio Madoia è un riferimento: «Le persone hanno familiarità con me e mi raccontano i propri drammi», racconta. «Se una mamma è malata bisogna pensare anche ai suoi bambini, per esempio assicurarsi che vadano a scuola. Io ne parlo con gli operatori sociali del Saint Martin e cerchiamo una soluzione insieme alla comunità, partendo innanzitutto da quello che gli altri genitori o gli insegnanti possono fare».
Fra gli operatori del Saint Martin 38 sono “mobilitatori di comunità”. «Sono loro la chiave di questo modello di sviluppo», spiega Kihara, «il loro obiettivo è creare una cultura della condivisione partendo dalla prospettiva che se, per esempio, un bambino è orfano e vive sulla strada, il problema è di tutta la comunità. I mobilitatori vanno a parlare con i responsabili della scuola, con i parenti del bambino e con altri genitori».
Il successo del Saint Martin si regge su un delicato equilibrio fra donazioni provenienti dall’estero e protagonismo locale. «Le ong sottovalutano la capacità di donare degli africani, che ha alla base una profonda spiritualità. Fanno fatica a uscire dal binomio donatori- beneficiari», afferma Kihara, «alla base della nostra attività c’è tanto lavoro di formazione, ma la generosità di molte persone non finisce di sorprenderci».


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