Abbiamo commentato favorevolmente su questo blog l’introduzione della Volcker-rule negli Stati Uniti (vedi qui). La Volcker-rule in estrema sintesi prevede la separazione tra le attività tradizionali di commercial banking e le attività di investment banking. Le motivazioni sono sia di “stabilità finanziaria” (separando le attività più speculative dalle attività di raccolta del risparmio e erogazione crediti l’obiettivo è quello di rendere più stabile il sistema bancario) sia di “protezione del consumatore” (le banche tradizionali, separandosi dalla componente investment bank, possono allineare i propri interessi con quelli dei propri clienti quando questi ultimi si rivolgono, attraverso la loro intermediazione, alle investment banks per acquistare titoli, …). Questo perlomeno negli Stati Uniti o in Inghilterra (con la analoga Vickers reform).
In Europa, invece, siamo ancora indietro e, stando a quanto riportato stamane dal FT che ha avuto l’opportunità di leggere una bozza (“Europe set to soften bank split reforms”), l’obiettivo della Commissione sembra essere solo quello della “stabilità finanziaria”. Lasciando molta più discrezionalità alle singole autorità nazionali europee nel decidere il grado di separazione tra le due attività, sembra preoccuparsi esclusivamente della “stabilità” delle banche, facendo attenzione a non togliere alle banche preziose fonti di utili. La “protezione del consumatore” passa in secondo piano e la cosa non sorprende perché il meccanismo di funzionamento della produzione legislativa europea prevede il metodo della consultazione con “esperti del settore” e la costituzione di “working groups” a cui in genere partecipano solo esponenti dell’industria. Lo abbiamo visto anche nel campo del gambling online che pure è meno tecnico di quello del banking.
Si pensi ad un dettaglio tecnico che illustra bene il conflitto d’interessi con i consumatori.
Nella cd. Barnier rule, equivalente europeo della Volcker, si stabilisce a proposito del “proprietary trading” (cioè l’attività di negoziazione in cui la controparte diretta del cliente che voglia negoziare titoli non è la “Borsa” ma la banca stessa) che sono proibite attività svolte per “the sole purpose of making a profit for own account without actual or anticipated client activity”. Quindi, è considerata ammissibile nel market making la possibilità per la banca di fare profitti anticipando l’attività dei clienti.
Ebbene, non c’è nulla di male nel fare profitti anticipando l’attività degli operatori, se il market maker non utilizza informazioni privilegiate (come ad esempio l’osservazione diretta del comportamento dei clienti nelle filiali o lo scambio di opinioni, per usare un eufemismo, tra colleghi, come potrebbero essere il responsabile del desk di trading e quello delle gestioni patrimoniali) ma si basa sulla propria capacità di analisi, sull’intuito, sull’osservazione dei flussi che gli arrivano. Differentemente da quanto prevede la Barnier’s rule, l’aspetto “cattivo” dell’attività di market making non è la natura rischiosa dell’attività di anticipazione dei flussi bensì la modalità di acquisizione dell’informazione necessaria per svolgere tale attività. L’attività diventa tanto più “rischiosa” quanto più sia basa sulle capacità analitiche del trader, dello strategist o del macroeconomista.
Ovviamente, ci sarà sempre il rischio che il “trader” parli con il “gestore” ma questo avverrà eventualmente su un campo da golf e non a margine di un CdA o di un meeting tra colleghi.
Separando l’attività di market-making da quelle bancarie tradizionali, si prendono due piccioni con una fava. Le banche commerciali diventano più ”stabili” e i loro clienti più tutelati, anche perché, se la banca fa bene il proprio mestiere, a quel punto diventa l’alleata più preziosa dei propri clienti retail. Si riduce l’attività di investimento dei clienti retail e quindi si abbassa la frontiera efficiente per i loro portafogli? Niente affatto, esiste il servizio di “ricezione e trasmissione ordini” (RTO) che funziona perfettamente per la clientela retail.
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