Famiglia

Voi non pensavate che questa donna potesse essere mamma e invece…

Sono sempre di più i casi di donne disabili che affrontano l’avventura della maternità. Vita ha raccolto le storie di alcune di loro. Storie di un amore, felice e coraggioso

di Sara De Carli

Prima tappa, Roma Garbatella. «Sì che la faccio l?intervista, non per farme vedere a me ma per fa? capì che pure noi possiamo fare figli». Maria Grazia Falzoni è tetraplegica: non muove la gambe e muove a fatica le braccia e le mani. È stato un incidente stradale, da giovane. A giorni dovrebbero chiamarla da Firenze per un intervento alle mani. Lorenzo, 8 anni, chiede: «Ma se lo fai alle mani, non puoi fartelo pure alle gambe? Così cammini». «Cominciamo dalle mani», risponde lei, «almeno quando te lo meriti ti tiro i capelli. E poi vedrai, un giorno ti correrò anche dietro per dartele?». Ridono, sereni. «Per Lorenzo una mamma in carrozzina è normale. Lo vede che le altre mamme sono diverse, ma non gli ha mai dato importanza. Se tu hai accettato la tua situazione, allora anche il bambino è sereno. Invece c?è gente che pensa che chissà che vita triste fa mio figlio? Ma se io e mio marito ridiamo e scherziamo tutto il giorno! Certo lui è sempre stato molto attento ai bisogni degli altri, fin da piccolo. Quando aveva tre anni è venuta un?amica a trovarci. Mio marito le ha fatto il caffè, e lei ne ha fatte cadere alcune gocce per terra. Lorenzo si è piantato davanti a lei col ditino alzato e le ha detto: ?Aho, guarda che mo? devi pulì. La mia mamma non può pulì per terra, non lo vedi??. Ci ha fatto morire dal ridere». Maria Grazia racconta la sua vita piazzando ovunque l?aggettivo normale. Normale la scelta di un figlio, normale la gravidanza, normale la gestione quotidiana di un bambino piccolo: con la nonna, come tutte. «Il non normale lo vedono gli altri», afferma. «C?è gente per strada che quasi inciampa da tanto mi fissa come fossi un?extraterrestre. Se poi mi vedono con mio figlio gli si legge in faccia che si chiedono ?Ma sarà davvero suo??. Pensi che un?amica verso la fine della gravidanza mi ha obbligato a mettermi in posa e mi ha fatto una foto. Una pancia grande così? Così potrai far vedere a Lorenzo che l?hai fatto davvero tu, chissà quanta gente poi gli dirà che è stato adottato». Mamma a quattro ruote Da Garbatella a Ciampino. Orietta Roma sta nel suo negozio di scarpe per bambini, ?Gli amici di Sissi?, sulla sedia a rotelle. Chiacchiera con i bambini, gli fa i complimenti, è molto materna. Anche lei è tetraplegica: un errore chirurgico, aveva 19 anni. Stava con Roberto dai tempi delle medie: «Dopo l?incidente non volevo più sposarmi, avevo dei sensi di colpa. Poi lui mi ha convinto». Si sono sposati nel 1993 e subito Orietta ha pensato di mettere in cantiere un figlio. «Ho chiesto ai medici, e mi hanno sconsigliato in massa. Mi dicevano che un bambino non lo dovevo fare, che rischiavo di soffocare perché la pancia, crescendo, avrebbe schiacciato il diaframma. Io ho deciso che se non respiravo avrei fatto la tracheotomia, ma che un figlio lo volevo. Mio marito all?inizio non era d?accordo, era preoccupato per la mia salute, ma io volevo fargli un regalo speciale, che fosse segno del mio amore per lui». Silvia è nata nel 1996, dopo una gravidanza complicata, ma senza bisogno della tracheotomia. Nel 2004 è arrivato anche Valerio, perché «io non mi arrendo mai». Tutti le hanno dato della pazza. La ginecologa che l?aveva seguita con Silvia le ha detto di cercarsi qualcun altro, perché lei «non voleva essere complice della scelta di lasciare orfana una bambina». Ma una settimana dopo che era nato Valerio, «una sera li abbiamo trovati abbracciati che dormivano, ed erano bellissimi. Ti ripagano di tutto». Ma davvero non c?è un dubbio, una paura? «Prima di avere Silvia la cosa che più mi frenava era l?idea che mio figlio avrebbe potuto soffrire per colpa della mia situazione, che a scuola lo avrebbero preso in giro. Invece con Silvia ho visto che non è così. Certo, ogni tanto qualcuno le chiede perché la sua mamma sta su una carrozzina. Lei all?inizio si arrabbiava con il bambino che aveva osato fare quella domanda, come se lei volesse proteggere me. Io faccio così: prendo il bambino vicino, gli racconto la mia storia, gli dico che io amo Silvia esattamente come la sua mamma ama lui, perché l?amore viene dal cuore, non dalle gambe». Non tutti capiscono, a cominciare dagli adulti. In prima elementare Silvia era silenziosa, la maestra ha fatto chiamare la mamma e quando l?ha vista le ha detto: «Per forza Silvia è così, a casa vive questa situazione così difficile!». A Orietta non è andato giù: «Non mi piace l?idea che tutto ciò che mia figlia fa o non fa dipenda dalla mia disabilità. È un?etichetta». Qualcosa che manca a Orietta a dire il vero c?è: «Quando sono triste vorrei prendere in braccio i bambini, stringerli forte. Portarli al parco, farli saltare in aria. Però sono cose che mancano a me, non a loro. Loro le fanno con il papà, con gli zii. Si mettono in braccio a me, sulla carrozzina, e mio marito ci spinge tutti forte. A loro cerchiamo di dare tutto, come gli altri genitori, con le stesse paure e gli stessi sbagli. Poi la sera mi sdraio sul letto e i bambini si buttano sopra di me, e allora sono una mamma come tutte le altre». Una mamma modella Mirella Santamato le mamme modello non le sopporta. Questa visione sacrale della maternità, tutte come la Madonna, che conta solo perché ha fatto un figlio, non le piace proprio. Men che meno le piace l?idea che una donna disabile debba fare un figlio per dimostrare di essere donna. Il passo da fare, secondo lei, è quello precedente: conquistare il diritto alla sessualità. «Perché finché ragioniamo sulla maternità, per i disabili viene fuori la logica degli allevatori di cavalli: siccome lei non fa figli, o se li fa li fa male, è inutile che la monto». Lei invece ha scelto di vivere la sua bellezza, di ostentarla anche, facendo la modella. Con il bastone. Mirella è di Ravenna, oggi fa la scrittrice e tiene conferenze sul diritto alla sessualità dei disabili. A due anni ha avuto una forma gravissima di poliomielite, che per i quindici anni successivi l?ha ingabbiata nelle apparecchiature di ferro che dovevano sostenerla. Oggi cammina aiutandosi con un bastone. Ha due figlie grandi, di 23 e 26 anni. «Quando abbiamo deciso di avere dei figli, ho scoperto tutta una nuova serie di pregiudizi sui disabili che fino a quel momento mancavano nel mio catalogo. Ogni volta che andavo a fare gli esami di controllo, con una pancia che arrivava prima di me, degli infermieri premurosi mi avvisavano che avevo sbagliato reparto, che l?ortopedia donna era da un?altra parte. Una rabbia? vuol dire rifiutarsi di vedere l?evidenza. Ma dico, i bambini si fanno con l?utero o con i piedi? Per non parlare dei medici. Alle ragazze disabili dico: riprendetevi il vostro corpo, non delegatene a nessuno la gestione». Chi sceglie sapendo che Filomena è giovanissima, ha appena 24 anni. Si presenta come signora Damiano, è sposata da un anno ed è appena entrata nel settimo mese di gravidanza. Col matrimonio, da Potenza si è trasferita nel pavese. Lei è acondroplasica, cioè molto piccola di statura. Per la precisione ipoacondroplasica, che è la forma più leggera. L?anomalia genetica è trasmissibile. Al 50%. Il bambino di Filomena, Matteo, l?ha ereditata. «Quando ci hanno detto che il bambino era ipoacondroplasico volevo abortire. Non ci avevamo pensato abbastanza, la gravidanza è capitata, io mi facevo un sacco di problemi. Mio marito non voleva che abortissi. Ma cosa ne sa lui? Io vengo dal Sud, là tutti ti guardano male. Mi sono tornate in mente le umiliazioni che ho sopportato e mi sentivo in colpa perché mio figlio avrebbe attraversato tutto ciò e sarebbe stata colpa mia. Ma che mamma è, una così?». Cosa le ha fatto cambiare idea? «Mi sono resa conto che al Nord è molto diverso, c?è una mentalità più aperta, meno pregiudizi. Si vive bene. E mi sono detta: devo uccidere mio figlio solo perché è basso? Se gli va come a me, non c?è di che lamentarsi. E poi se avessi abortito, non avrei mai più tentato di avere un figlio, e quindi avrei rinunciato per sempre ad essere mamma». Anche Milena Frappoli è ipoacondroplasica. Vive in provincia di Varese, fa l?infermiera in pediatria. Di figli lei e Paolo ne hanno due, Monica e Luca. Già da fidanzati parlano di un figlio, sapendo del rischio di trasmissibilità: «Paolo mi ha chiesto: ?Se succede, sarà come te? Allora va bene?. Sapevamo del rischio ma sapevamo anche a cosa andavamo incontro». Monica è nata sanissima, nel 1993. Tutti dicevano che tentare la sorte una seconda volta sarebbe stata una follia, ma loro l?hanno fatto: «Volevamo un altro figlio, Monica stava bene, anche se il secondo fosse stato ipoacondroplasico potevamo farcela». Il fatto che Luca fosse più piccolo del normale lo hanno scoperto con un?ecografia, al settimo mese. «Chiaro che ho pianto, ma lo avrei fatto anche se mi avessero detto che aveva un dito storto. Poi ho pensato alle situazioni che vedo in reparto, a malattie e malformazioni molto gravi: al confronto essere bassi di statura non era così terribile? Gli ultimi due mesi di gravidanza sono stati difficili, sarebbe stato meglio non sapere: ma una volta che Luca è nato basta, ti innamori e fine della storia. È stato più difficile per mia madre, che si è rivista con me piccola. Ma oggi tante cose sono cambiate, siamo più abituati al diverso». Non ha paura che un giorno Luca le chieda «perché?». «Sì, ogni tanto ci penso. Gli risponderò che è stata una scelta d?amore e che sapevo come sarebbe stata. E proprio perché lo so, so anche che ne valeva comunque la pena». Il cuore non ha bisogno di gambe Dodici tonnellate di marmo bianco, un blocco alto tre metri e mezzo, per ritrarre i 119 centimetri di altezza di Alison Lapper. Una Venere di Milo all?ottavo mese di gravidanza. La statua domina Trafalgar Square dal settembre 2005, accanto all?ammiraglio Nelson. Alison Lapper è la più famosa mamma disabile del mondo. È nata nel 1965, senza le braccia e con i piedi quasi attaccati alle cosce, per una malformazione congenita causata dal talidomide, un ansiolitico che veniva prescritto alle donne incinte. Oggi è fotografa e pittrice, ha scritto un libro (La vita in pugno, in Italia per Corbaccio) e incinta lo era davvero quando Marc Quinn, uno scultore amico, la ritrasse. Il suo compagno si è dileguato nell?istante in cui il test di gravidanza si è colorato sul positivo. Il bambino di Alison si chiama Parys, e oggi ha 5 anni. Insieme partecipano a un programma della Bbc, Child of our time, che ogni tre mesi e per vent?anni segue la crescita dei primi nati del Millennio. Perché ha firmato? «C?è un sacco di gente che dice che le donne come me non dovrebbero avere un figlio: sono una ragazza-madre e sono disabile. La solita solfa. Alla tv non posso nascondermi dietro a nulla, il mio essere mamma è lì, e il mondo intero lo può vedere. Che cosa mi da più fastidio? Quando Parys disubbidisce e si comporta male: tutti i bambini lo fanno, ma nel mio caso la gente subito pensa che non lo so educare». In Gran Bretagna sono 2 milioni i genitori disabili, negli Stati Uniti 9, il 15% del totale dei genitori. In Italia non si sa, non ci sono dati, ma si sa che quasi tutti sono mamme. I papà disabili sono meno, forse perché il desiderio di maternità nella donna è più forte o forse perché è di fatto più raro un rapporto di coppia in cui è l?uomo ad avere disabilità o una patologia grave. Questo servizio nasce da un intervento sul forum di Vita. È di una ragazza che si firma Manu78. L?oggetto del post è laconico: displasica incinta. «Salve, sono una ragazza displasica. Dopo tanti anni non c?è stato verso di definire la mia displasia scheletrica: l?acondroplasia, la kniest, me ne hanno diagnosticata più di una. Ora ho 28 anni e sono incinta da quattro mesi quasi finiti. Il bimbo è anche lui displasico. Provo un sacco di dolore, come mamma, e il sentimento di colpa. Soprattutto ora nasce la paura, forse perché non mi sento seguita. Nessuno sa nulla, e io mi sento una cavia». Non abbiamo cercato Manu. Siamo partiti per un viaggio tra le mamme come lei: quelle che hanno osato essere mamma. Mamme con le ruote, mamme con un gene mutato, mamme e basta.


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