Cultura

Voglia di non profit

Sarà la tendenza dei prossimi mesi: una professione nel sociale. Più significato anche a costo di stipendi inferiori. Il parere di quattro esperti

di Giampaolo Cerri

Meno soldi, ma più coinvolgimento emotivo in ciò che si fa; prospettive di carriera inferiori, ma un grande ritorno in termini di soddisfacimento psicologico: a chi voglia lavorare nel non profit, l?alternativa si pone netta. E per molti, lo scambio è più che accettabile. Scopriranno, come dimostra la ricerca di cui parliamo sotto, che la differenza non è un abisso. Il professor Ernesto Caffo, fondatore di Telefono azzurro, è uno che questa domanda di lavoro la incrocia spesso: la sua associazione si è data negli ultimi anni una struttura altamente professionalizzata. «Vedo sopratutto un forte interesse nei giovani», dice. «Si rendono conto che il privato sociale offre un?opportunità ricca per costruire nuove relazioni sociali, ma anche nuove competenze. Non si tratta più di un impegno marginale o poco professionalizzante». E il passaggio da profit a non profit? «Sono più scettico», commenta, «perché si tratta di altri riferimenti e non di rado assistiamo a difficoltà o limiti». Non che di professionisti non ci sia bisogno. «Ci mancano nuove qualità professionali, ma legate a strutture che abbiano una fisionomia precisa. C?è bisogno di una maggiore cultura di vision e di mission». Caffo dunque punta sulle new entry: «I tempi sono maturi per creare professionalità nuove. Dal mondo del profit abbiamo bisogno di specialisti su alcune aree precise: formazione e gestione delle risorse». Ivo Colozzi, il fenomeno lo legge secondo le categorie della sua scienza, la sociologia, che insegna all?università di Bologna. «Decisiva è la reputazione di cui godono le professioni sociali», osserva, «che si è anche accresciuta, sotto la spinta dei fatti dell?11 settembre». Il professore però attribuisce la tendenza alle mutazioni che hanno investito il mondo del profitto. «Nel passaggio dall?epoca industriale a quella post, il lavoro si è trasformato», chiarisce. Cambiamento che ha significato, «parcellizzazione del lavoro e introduzione massiccia di nuove tecnologie». Il trionfo della complessità, insomma. Ecco allora diffondersi, in più di un lavoratore e a più livelli, «la percezione difficoltosa dell?utilità finale del proprio fare». Situazione frustrante che spinge verso una ricerca di concretezza: «Alla base di questa tendenza, per chi proviene dal mondo del lavoro tradizionale, c?è questa forte domanda di professioni di cui sia subito chiaro il fine, che permettano di sentirsi partecipi e protagonisti». Analisi che si intreccia con quella dello psicologo. Dice infatti Francesco Rovetto, associato di Psicologia clinica a Parma, che «una componente importante del salario è data dalla percezione di utilità del proprio lavoro». Esemplifica: «Un mio paziente curava una bellissima collana di letteratura e ne andava fiero. Poi si è accorto che quei libri, così belli, venivano letti da poche decine di persone: uno choc». Un?altra componente è il divertimento, «nel senso etimologico del termine. Persone che possono dire: accidenti, quello sguardo, quel sorriso, quella solidarietà fra persone, mi ripagano molto di più». Di una tendenza in crescita parla anche Walter Passerini, direttore di Corriere Lavoro. «Si nota una una quota di giovani interessati verso un lavoro che abbia un senso», spiega. Domanda di motivazione «ma anche di miglioramento professionale, perché il lavoro nel sociale viene percepito così». Peccato che il non profit talvolta frustri questa attesa: «I delusi indicano nella mancanza di adeguati momenti fornativi uno dei limiti di questo mondo». A muoversi verso le professioni sociali sono poi «alcuni over 40, un po? spremuti dal mondo profit che, magari dopo 20 anni di carriera, sono desiderosi di scambiare le loro competenze e una parte di restribuzione con un?esperienza di forte significato. Fra questi molte organizzazioni ambientaliste, per esempio, hanno trovato il loro management». Diverse le motivazioni di alcuni lavoratori prossimi alla pensione: «Dopo una vita professionale spesa per il profit», osserva, «decidono per una svolta. Ma spesso la spinta è contraddittoria: si cerca piuttosto una prospettiva che porti a spendere il tempo lontano dalla casa e dal bar». Fenomeno recente: le donne. «Esprimono una domanda particolare, nell?area della sanità e dell?assistenza, alle quale sta facendo riscontro un?offerta relativa all?area organizzativa e di assistenza alla direzione generale», chiarisce, «per 35-45enni, già formate e con forte esperienza». Completa il quadro, il numero crescente di tecnici e operai che si mettono in aspettativa per lavorare, per brevi periodi, nel volontariato. «Tendenza che i decisori pubblici dovrebbero favorire, con provvedimenti fiscali e lavoristici», dice Passerini. Anni ?sabbatici sociali?, che si risolverebbero a vantaggio di tutti: dei lavoratori, che si rigenererebbero; delle imprese, che si vedrebbero restituito personale più motivato; e del non profit, che sfrutturebbe competenze tecniche rilevanti. Ecco Chi ha già fatto il grande salto 1Nome: Alex Cognome: Renton L?ultimo incarico di Renton in Thailandia è stato un?intervista a Leonardo Di Caprio durante le riprese del film The Beach da pubblicare sul suo giornale, il London Evening Standard. Ora Renton è di nuovo in partenza per Bangkok, ma tutto quello che scriverà andrà a favore di Oxfam, la charity inglese per cui ha appena assunto la carica di responsabile della comunicazione in Asia. Con uno stipendio neanche paragonabile a quello delle ?firme? dello Standard: 20mila sterline al mese, più una casa in cui vivere con la moglie e il figlio di 2 anni. Le ragioni della scelta? Il giro dei boa dei 40 anni e i reportage in Sierra Leone, dove per la prima volta ha visto al lavoro quelli di Oxfam. 2Nome:Deborah Cognome: Brooks Secondo gli standard di Wall Street, a 42 anni Deborah aveva il massimo cui una donna può aspirare: qualifica di vicepresidente nella divisione asset management della Goldman Sachs e casa a Nantucket Island. Peccato che per lei non fossero sufficienti: dopo un anno di master in terapia familiare, scopre che la M. J. Fox Foundation for Parkinson?s Research sta cercando un manager. Si fa presentare all?attore e oggi dirige la sua fondazione. Cosa l?ha convinta ad accettare l?incarico? La ricerca di significato e non solo di successo: «Potrei essere parte di un progetto che cambierà milioni di vite». 3Nome: Didier Cognome: Cherpitel Dalla J.P Morgan alla Croce Rossa. È il salto che, a 55 anni, dopo 27 di carriera nel settore bancario, ha fatto il francese Didier Cherpitel. Oggi segretario generale della Federazione della Croce Rossa, a Ginevra. Le difficoltà più grandi che ha incontrato? Di natura psicologica più che economica: «Ho chiesto ai colleghi della Croce Rossa quali erano i loro obiettivi e piani strategici, ma non ne avevano», spiega Cherpitel. «Tuttavia, la cosa più difficile è non lasciarsi demoralizzare quando vedi una ragazzina di 20 anni morire di Aids e senti che i Paesi africani negano la gravità della malattia». 4Nome: Rodrigo Cognome: Baggio Dopo pochi mesi di lavoro come consulente informatico in un?azienda di Rio de Janeiro,a 25 anni, ha dato le dimissioni e ha fondato il Comité para la Democratizazión de la Informatica, organizzazione per la lotta al digital divide. Colleghi: i più poveri dei poveri, uomini e donne delle favelas di Rio. Strategia: raccogliere computer usati e insegnare ai brasiliani come usarli. Accadeva 6 anni fa. Nel frattempo, ha fondato 68 scuole e ha insegnato informatica a 32mila persone.


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