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Vizi monetari

Uno fra i tanti fattori d'incertezza che accompagnerà l'evoluzione delle principali economie nel corso di questo nuovo anno è costituito dalle politiche monetarie delle Banche centrali

di Christian Marazzi

Uno fra i tanti fattori d'incertezza che accompagnerà l'evoluzione delle principali economie (Svizzera compresa) nel corso di questo nuovo anno è costituito dalle politiche monetarie delle Banche centrali.

Dopo anni di politiche monetarie ultra-espansive volte a mitigare gli effetti della crisi finanziaria esplosa nel 2008, le Banche centrali hanno deciso di ritornare a politiche monetarie più normali, con tassi d'interesse più elevati e minore creazione di liquidità eccezionale da iniettare nel sistema finanziario.

L'obiettivo di questa normalizzazione monetaria è quello di permettere alle Banche centrali di prepararsi ad intervenire nell'eventualità di una nuova recessione economica: infatti, se si continua imperterriti con tassi d'interesse prossimi allo zero, come si può poi ridurli nel momento in cui le economie dovessero entrare in recessione?

Così, almeno, dice la teoria che sta alla base delle scelte di politica monetaria delle Banche centrali. Ma che le cose siano un po' più complesse della teoria (monetarista) lo dimostra il fatto che proprio nel paese in cui l'economia non rallenta, cioè gli Stati Uniti, il presidente Donald Trump teme fortemente che una politica monetaria più normale, cioè meno espansiva, come quella perseguita da qualche mese dalla Federal Reserve, finisca col penalizzare i colossi industriali americani, come ad esempio la Apple o l'industria automobilistica, minacciate dal rallentamento della crescita cinese come anche da uno sviluppo tecnologico cinese fenomenale.

Se Trump, come prevedibile, dovesse avere la meglio sul presidente della Fed, Jerome Powell, si ritornerebbe ad una politica monetaria espansiva, basata sulla crescita dell'indebitamento pubblico e privato e su una finanziarizzazione spietata.

Si tornerebbe, in altre parole, agli stessi processi che hanno favorito i pochi a svantaggio dei molti. Anche la politica di Quantitative easing, il programma di acquisti di titoli pubblici e obbligazioni private lanciato dalla Banca centrale europea nel marzo del 2015 e che si è concluso alla fine del 2018, rischia a suo modo di incorrere nel medesimo circolo vizioso.

È stato un programma che ha certamente beneficiato le finanze pubbliche di paesi come l'Italia, fosse solo per aver contribuito non poco a tenere basso il servizio su un debito pubblico non indifferente. Ma in Europa, come d'altronde ovunque, il Quantitative easing non ha in alcun modo contribuito alla crescita dell'economia reale.

Ha, invece, favorito la crescita delle rendite finanziarie, le rendite dei grandi investitori sui mercati borsistici, aggravando le disuguaglianze in modo insopportabile e, come in Francia, ingovernabile. Il che fa supporre che anche in Europa le politiche monetarie espansive non siano affatto relegate al passato, ma destinate a ritornare. E a ritornare con tutte le loro contraddizioni.

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