Salute

Vivere con la SM senza farne un limite

Oggi è la Giornata Mondiale della Sclerosi Multipla. Mentre è in corso a Roma il congresso scientifico di Aism, Martina racconta la sua vita quotidiana

di Sara De Carli

Martina di motti non ne ha uno, ma ben due. Il primo è “Barcollo ma non mollo”, che la fa pure un po’ ridere mentre lo dice. Il secondo è quello che ha scelto per partecipare alla campagna internazionale What's your motto?, che accompagna la Giornata Mondiale della sclerosi multipla, che si celebra proprio oggi: “Non è forte chi non cade ma chi cade e si rialza». Martina ha 27 anni e vive in quel meraviglioso borgo della Toscana che è San Quirico d’Orcia. Quando aveva 18 anni le è stata diagnosticata la sclerosi multipla. «A me è capitato un sacco di volte di cadere, sia fisicamente che moralmente», racconta. «Dopo la laurea, quando non trovavo lavoro e non avevo più alcun obiettivo, ho avuto anche una brutta depressione. Ma con l’aiuto della mia famiglia e dei miei amici mi sono rialzata, ogni volta. E ogni volta sono diventata un po’ più forte».

Martina, protagonista di “Under pressure”

Martina, che è una dei giovani blogger di Giovani oltre la SM, fa parte del Gruppo giovani di Aism e del direttivo di Aism Siena, è anche il volto italiano della mostra Under Pressure, una street exhibition promossa dall’EMSP, che dopo Milano ora  campeggia a Roma in piazza Colonna,  fino al 3 giugno. Attraverso gli scatti di cinque grandi fotografi – Walter Astrada, Lurdes R. Basolí, Max Braun, Fernando Moleres, Carlos Spottorno – la mostra illustra come il sistema sanitario e le politiche sociali influenzino concretamente la vita quotidiana delle persone con SM. «Cosa vuol dire vivere con la sclerosi multipla? Affrontare tante difficoltà, fare qualche rinuncia, fare più fatica degli altri», dice Martina. Ma nulla di tutto questo la ferma: «io cerco di fare tutto quello che posso, non rinuncio mai a priori a qualcosa solo perché ho la sclerosi multipla. Poi magari qualche volta mi accorgo che non ce la faccio, ma non parto mai rinunciando».
 


L’esempio più lampante di questo atteggiamento, che è poi uno stile di vita, Martina lo ha dato al terzo anno di Università, quando decise di andare in Erasmus a Friburgo, in Germania: «quando ho fatto domanda era anche un periodo difficile della malattia, già un paio di volte mi si erano proprio paralizzate le gambe, che è una sensazione bruttissima perché la tua testa dice alle gambe di muoversi e quelle non fanno nulla, ti senti assolutamente impotente. Però l’Erasmus era il mio sogno, ho messo l’interferone in valigia e sono partita. Mi facevo un’iniezione un giorno sì e uno no, ho avuto anche una ricaduta là, ho dovuto usare le stampelle, ma sono riuscita a fare tutto, come gli altri».

I farmaci sono compagni quotidiani di Martina: tre volte al giorno c’è la pastiglia per la rigidità delle gambe, una per proteggere lo stomaco, due volte al giorno quella per l’ernia iatale, più l’antidepressivo e un cerotto. Troppe? «Mah, alla fine sono pastiglie, uno se le porta ovunque e le prende. Ci sono dei periodi che mi dà proprio noia l’idea, sono stufa, ma alla fine ti abitui». L’interferone non lo fa più da qualche anno, è stato sostituito dal Tysabri, una flebo in ospedale una volta al mese: «la qualità della vita è nettamente migliorata, e funziona pure meglio. Da allora non ho più avuto ricadute e la risonanza è rimasta identica, non ci sono nuove lesioni». Due volte alla settimana Martina fa riabilitazione, più tanta tantissima piscina, il suo hobby da sempre: «in acqua riesco a fare cose che fuori non posso fare, per cui è anche motivo di grandi soddisfazioni». Il vero problema è la fatica: «non riesco a camminare a lungo, non ho resistenza, ora uso sempre le stampelle, tranne dentro casa e al lavoro. Solo che la fatica è un sintomo difficile da spiegare e da far comprendere, perché non è una fatica dopo uno sforzo, ma a prescindere». Per lei questo significa rinunciare ad andare a ballare il sabato sera: «non ce la faccio più. Che ora mi pesa anche meno, a vent’anni era ogni volta un sacrificio». Però si ritiene anche «fortunata», perché sul lavoro questo non ha mai pesato: «Trovare un lavoro è stato un punto di svolta. Nessuno mi ha mai fatto pesare la mia condizione, mi ha mai messo in difficoltà o fatta sentire a disagio, né la direzione né i colleghi. Anzi, devo dire che al lavoro ho trovato veri amici. Dovrebbe essere normale, però sento che non è così, sento tante persone che sul lavoro non sono per nulla compresi».

Per Martina, anche pensando all’estero, l’Italia non è messa male: «Tutti i farmaci sono passati dal sistema sanitario. Quello che manca, secondo me, è un sostegno psicologico dopo la diagnosi, perché tu non sai niente, sei spaventato, io ho pensato oddio domani sarò su una sedia a rotelle… Invece sono qui, da due anni vivo da sola, mi arrangio. Devo dire grazie anche alla mia famiglia, che c’è sempre ma che aspetta sia io a chiedere aiuto, non mi opprime». L’unica cosa che le manca è un compagno: «è il punto debole della mia vita. Non so se dipende dalla malattia, se devo essere razionale dico di no, però a volte invece lo penso. Penso che le persone non sanno, così come non sapevo io, e si impauriscono. Sicuramente è più difficile, mette in discussione anche chi ti si avvicina».

 


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