Cinema
Vittoria: un film sull’adozione o un film sull’amore?
Jasmine ha 40 anni e tre figli maschi quando sogna suo padre che le mette tra le braccia una bambina. Quel desiderio diventa quasi un'ossessione, che la porta - contro tutto e contro tutti - ad adottare Vittoria. In dialogo con i registi e con la protagonista
Vittoria, di nome e di fatto. Il film di Alessandro Cassigoli e Casey Kauffman – Vittoria appunto – racconta l’adozione di una bimba bielorussa da parte di una famiglia italiana. In realtà non narra tanto l’adozione, ma il desiderio di Jasmine – una donna quarantenne, già madre di tre figli – di avere una figlia femmina. Un desiderio che si fa “tutto”: malessere, testardaggine, insolenza, coraggio. Sembra tutto sbagliato nel modo in cui questa donna (perché il marito è apertamente ostile al progetto) vive il percorso di adozione, quasi indigesto. Dal punto di vista delle emozioni, Jasmine e Rino conquistano; dal punto di vista del racconto al grande pubblico di cos’è l’adozione, in un momento in cui l’adozione non gode di uno storytelling particolarmente favorevole… meno. Insomma, è un film bellissimo e allo stesso tempo un film che farà discutere.
Il primo, enorme elemento di forza del film è il fatto che gli attori non sono tali. A interpretare Jasmine, la mamma, è Marilena Amato, che nella vita fa la parrucchiera a Torre Annunziata: la storia a cui si ispira il film è proprio la sua. Lo stesso per Rino, il papà, e per i due fratelli maggiori. Solo il terzo figlio, che nella vicenda svoltasi otto anni fa aveva appena sette anni, non ha potuto impersonare se stesso. Come in Vermiglio, il film candidato per l’Italia all’Oscar, anche qui si parla in dialetto, con i sottotitoli. Per i registi è il terzo film girato a Torre Annunziata e il secondo di finzione: prima Butterfly, basato sulla storia della pugile Irma Testa, poi Californie, durante la cui lavorazione hanno incontrato Marilena, che in una pausa pranzo ha raccontato loro la sua storia.
Tutto inizia con un sogno
All’origine dell’adozione di Vittoria c’è un sogno: Jasmine vede il padre, morto da anni, fuori dal suo salone di parrucchiera con una bambina. I due sono dall’altro lato della strada, il padre chiama Jasmine, le fa un cenno e fa attraversare la bambina. «Quel sogno ricorrente mi ha sconvolto la vita. Non riuscivo a pensare ad altro. A 24 anni, dopo primo figlio, avevo sofferto di depressione post partum e quando ero incinta del secondo ebbi degli attacchi di panico», racconta Marilena. Così quando il sogno in maniera così ricorrente, «dopo un po’ sono tornata dal mio psicologo, perché non stavo bene. Il desiderio di una bambina mi era entrato dentro, ma l’idea di una quarta gravidanza mi metteva l’ansia. Io non avevo mai pensato di adottare e ti devo dire che preparare tutte quelle carte per me è stata una fatica, mi mettevo lì la notte a scrivere e compilare moduli… io ho la terza media, non ci capivo niente. Comunque è stato parlando con quello psicologo che mi sono accorta che se pensavo a una gravidanza stavo male, se pensavo all’adozione invece stavo bene e diventavo una leonessa».
Il film e la realtà
In sedici mesi, Marilena e Gennaro hanno adottato Vittoria. In un altro paese, non in Bielorussia, ma poco importa. «Ma è ovvio che nel film ci stanno pure cose inventate! Ti pare che potevo falsificare la firma di mia suocera? Però è vero che nella nostra storia di adozione tantissimi possibili intoppi sono spariti subito, come se le cose si fossero sempre tutte “allineate”. C’è gente che mi ha chiesto se conoscevamo qualcuno di importante o se abbiamo pagato qualcuno, perché concludere un’adozione in sedici mesi è una rarità. Ma figurati, noi i soldi li avevamo giusti per l’adozione, anzi all’inizio avevamo pensato anche ad un altro paese perché dicevano che era più facile avere la bambina femmina, ma lì l’adozione costava di più e tutti quei soldi noi non li tenevamo», racconta Marilena.
Questa bambina me la sono ritrovata dentro e sarei andata a prenderla pure in capo al mondo. Io dico che Vittoria è arrivata nella nostra famiglia perché doveva arrivare. E basta
Marilena Amato
«La verità – insiste – è che io ho sempre sentito la mano e gli occhi di mio padre… In tribunale l’uomo a cui abbiamo consegnato il fascicolo aveva proprio lo sguardo suo. Questa bambina ce l’ha mandata lui. Me la sono ritrovata dentro e sarei andata a prenderla pure in capo al mondo. Io dico che Vittoria è arrivata nella nostra famiglia perché doveva arrivare. E basta».
Il potere del desiderio
Ad Alessandro Cassigoli, uno dei registi, chiedo perché hanno messo al centro del film questo desiderio di Jasmine di essere madre di una figlia femmina, anche nel suo aspetto se vogliamo egoistico. Senza filtri, senza tutto quel coté di riflessioni sul desiderio/bisogno e sul bambino immaginario/bambino reale che siamo abituati a mettere in campo. «Abbiamo passato tantissime ore a parlare con Marilena di questo. Ok, le dicevamo, tutto è nato da questo sogno, va bene, ma poi che cos’è questo desiderio? Non può essere un sogno che ti fa fare tutto questo. Lei parlava e noi chiedevamo “Sì, va bene, ma poi?”. Per esempio ci ha detto di questa idea di una figlia femmina che ti resta più vicina nella vecchiaia perché i figli maschi poi se ne vanno. Sì, ma poi? A un certo punto abbiamo capito che non era importante. Noi vedevamo Marilena, Gennaro, Vittoria e i ragazzi anni dopo quei momenti che stavamo raccontando: vedevamo “il risultato”. Vedevamo una famiglia innamorata di Vittoria, vedevamo un’adolescente che ha bisogno di cure e terapie ma che sta bene ed è amata. Un padre che ogni volta che parla di sua figlia si commuove. E allora abbiamo smesso di chiederci il perché, il come è nata questa cosa. Questa cosa la vedi, c’è, funziona, è bellissima. Basta».
Noi vedevamo Marilena, Gennaro, Vittoria e i ragazzi anni dopo quei momenti che stavamo raccontando: vedevamo “il risultato”, l’amore. E allora abbiamo smesso di chiederci il perché questa cosa era nata
Alessandro Cassigoli
Io insisto: ma un desiderio così non è quasi un bisogno, un’ossessione? E non si adotta certo per “riempire un bisogno”… «Alcuni tratti li abbiamo enfatizzati perché l’idea era quella di non creare un personaggio buono e perfetto. In una prima versione questo tratto era ancora più forzato ma poi parlando con un papà adottivo abbiamo capito che era troppo, che avrebbe urtato. Anche se poi diciamocelo, c’è sempre anche un po’ di egoismo in quello che facciamo, pure nel mettere al mondo un figlio biologico. Comunque noi abbiamo voluto far risaltare il fatto che questo desiderio irrazionale, a cui tutti davano contro, si è trasformato in qualcosa di bello, che alla fine ti stupisce».
Una storia, non “l’adozione”
Vittoria non è e non vuole essere un film per raccontare il percorso adottivo, questo Cassigoli lo dice chiaro. «La cosa che a noi piaceva moltissimo della storia è il fatto che nella vita devi decidere se seguire il cuore o la ragione. Qui la ragione direbbe che con tre figli e una situazione economica precaria, questo desiderio del quarto figlio da adottare per via di un sogno sarebbe del tutto irrazionale… Poi però nello sviluppo della storia, questo irrazionale, quello che tu dici “sembra tutto sbagliato” si trasforma invece in qualcosa di molto bello. Ci colpiva anche questa posizione in controtendenza, perché un figlio oggi tendenzialmente lo programmi solo dopo aver fatto mille calcoli e Jasmine invece dice sempre ” dove mangiano in tre mangiano pure in quattro”. L’idea era di iniziare con questo dubbio e di arrivare a far detonare tutto in quel gesto finale che fa il papà, che racchiude tutto il senso dell’adozione, questo momento di grande amore per quel bambino lì, preciso, che vedi per la prima volta ma che senti già come figlio tuo. Cambia il paese, cambia il contesto, cambia la famiglia… ma questo è quello di cui parlano tutti i genitori che hanno adottato», spiega il regista.
Al centro c’è una storia, quella di Marilena. Non volevamo raccontare il percorso adottivo, ma alcuni momenti e alcune sensazioni. In particolare volevamo restituire la magia del primo incontro
Alessandro Cassigoli
Al centro quindi c’è «una storia, quella di Marilena. Era la sua storia, quello che lei provava. Noi non sapevamo praticamente nulla di adozioni, abbiamo parlato con diversi genitori adottivi, però non è questo il punto… Non volevamo raccontare il percorso adottivo, ma alcuni momenti e alcune sensazioni. ll punto nostro in particolare era restituire la magia dell’incontro e credo che nella scena finale ci siamo riusciti. Alla fine della proiezione tante coppie si avvicinano a noi e ci dicono “anche noi abbiamo adottato, abbiamo rivissuto quelle sensazioni… quando loro sono in auto e vanno verso l’orfanotrofio, quando loro hanno visto per la prima volta Vittoria… È proprio così”. Questo per noi è bellissimo».
La prima foto
Torniamo a Marilena e a rivivere con lei quel primo incontro. «Prima c’è stata la foto. Ed è una cosa buffa. Quando mi è arrivata sul telefono la foto di Vittoria, l’ho subito girata a mio marito. E lui ha pensato che fosse uno dei nostri figli da piccolo e non riusciva a capire esattamente quale dei tre, perché ci vedeva delle somiglianze con tutti. In quel momento per me è stato chiaro che quella bambina la voleva anche lui, anche se aveva sempre detto che lo faceva più che altro per assecondarmi», dice Marilena.
Quando arrivano in orfanotrofio, Jasmine scopre che oltre al ritardo del linguaggio di cui le avevano parlato, la bambina ha anche un ritardo cognitivo. Su questo punto l’intensità del film si fa davvero potente. Marilena ricorda che nella realtà, quando ha incontrato per la prima volta sua figlia, lei aveva 5 anni e pesava 9 chili e mezzo. «La sera piangevo. Dissi a mio marito “Io la voglio, ma poi come facciamo? Avevo paura che poi doverla seguire tutti i giorni diventasse una cosa troppo grande per noi, con gli altri tre figli e il lavoro… Lui disse subito: “La prendiamo. Poi a casa la curiamo noi”».
Si commuove Marilena, quanto nel film si commuove Jasmine e ci commuoviamo tutti noi spettatori, in quell’istante. «Insomma, non ho scelto il sesso, non ho scelto la bimba bionda… Io ho scelto lei perché era lei, così com’era».
La valigia di Vittoria
Il giorno della partenza per tornare in Italia, dopo un secondo soggiorno di circa un mese in cui era presente anche il fratellino più piccolo, Vittoria ha preso la valigia ed è scappata verso l’orfanotrofio: «Io in quell’istante ho pensato “Oddio, adesso non vuole più venire con noi in Italia” e invece lei è salita in macchina, ha chiuso la portiera e ha detto “mamma vieni”», ricorda Marilena.
È stato subito come se Vittoria fosse con noi da sempre. Fa terapia occupazionale e psicoterapia e nei centri pubblici si sono due anni di attesa: ma lei ha 13 anni, non può aspettare. Questa è una cosa da dire a chi si occupa di adozioni
Marilena Amato
«Appena siamo arrivati a casa, per me è stato come se Vittoria fosse con noi da sempre. In realtà non mi è mai pesato niente, anche se abbiamo fatto tanti sacrifici e ancora oggi stiamo spendendo tanti soldi per seguire Vittoria. Fa terapia occupazionale e psicoterapia e nei centri pubblici si sono due anni di attesa: ma lei ha 13 anni, non può aspettare due anni. Ecco, questa è una cosa da dire chiara a chi si occupa di adozioni, perché bisogna proprio trovare il modo di cambiarla».
Io ho salvato lei e lei ha salvato me
Prima di scappare a prendere Vittoria, Marilena mi regala un ultimo dettaglio. A casa loro, dopo la morte di suo padre, non si era più festeggiato il Natale. Per cinque anni, niente addobbi e niente albero. «Il primo Natale dopo che è arrivata Vittoria, invece, abbiamo festeggiato alla grande. Io ho salvato lei e lei ha salvato me».
La saluto pensando che anche non volendo, alla fine è facile giudicare il modo in cui gli altri sono genitori. Ciascuno di noi quotidianamente sta da una parte e dall’altra della lente. L’amore non basta, è vero. Ma Vittoria e Jasmine ci mostrano che l’amore c’è ed è qualcosa di estremamente reale, generativo e trasformativo: anche nelle nostre vite imperfette e scombinate, con i nostri pensieri incerti e le nostre ragioni che non tornano.
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