Mondo

Vittoria schiacciante di Kagame

Presidenziali senza storia. Il presidente uscente vince con percentuali bulgare (92%). Il ritratto

di Joshua Massarenti

Trionfo ‘bulgaro’ per Paul Kagame alle presidenziali rwandesi. Secondo risultati parziali pubblicati stamane in Rwanda, il presidente uscente ha raccolto il 92,8% dei consensi in undici distretti elettorali su trenta. I dati assoluti parlano di un milione e 610mila preferenze racccolte su un  milione e 734mila voti espressi. Una media altissima che dovrebbe essere confermata nelle prossime ore con i risultati finali. L’unica incertezza rimasta in sospeso riguarda la possibilità per l’uomo forte di Kigali di ripetere l’impresa registrata nelle presidenziali del 2003. All’epoca, Kagame aveva ottenuto il 95% dei consensi. Al pari di sette anni fa, oggi si tratta di capire il modo con cui la Comunità internazionale accoglierà il nuovo trionfo di Kagame. Una vittoria ottenuta  al termine di una campagna elettorale condizionata da alcune tensioni interne.

Indipendentemente dall’esito del voto, tutti gli occhi erano puntati su un solo uomo: Paul Kagame. Presidente illuminato o tiranno implacabile? Sul leader incontrastato del Rwanda i giudizi si dividono. Reporters Sans frontières e Human Rights Watch lo definiscono uno dei presidenti più spietati dell’Africa, mentre gli amici anglofoni, Tony Blair e Bill Clinton in testa, lodano il suo carisma politico.

L’uomo ha la fama di essere un duro. Implacabile di fronte a chiunque osa contrapporsi all’unico obiettivo che si è posto da quando nel 1994 prese le redini del Rwanda: ricostruire un paese devastato dal genocidio più rapido della storia dell’umanità, consumatosi sul continente più povero del pianeta.

Tre mesi, tanto era bastato agli estremisti dell’etnia hutu per massacrare a colpi di machete 800mila tutsi e una minoranza di oppositori hutu. A 16 anni di distanza, il Rwanda ha fatto passi da giganti, con la capitale Kigali diventata vetrina della crescita economica sbalorditiva registrata dal paese nell’ultimo decennio (6% in media), una classe media in aumento e livelli di sicurezza superiori a molti paesi europei.

Ma a Kagame, 53 anni, sposato con quattro figli, eletto dal Times tra le personalità più influenti del mondo nel 2009, non basta. Nell’ultima classifica stilata dal Programma Onu per lo sviluppo umano (Undp), il Rwanda rimane inchiodato al 167° posto (su 182 paesi classificati), con un quarto della popolazione rurale (maggioritaria al 90%) costretta a sfidare la fame. “La strada per lo sviluppo è ancora lunga” ripete instancabilmente ai giornalisti che si presentano al palazzo presidenziale di Kigali.

Sarà per questo, pensano le anime più candide, che Kagame ha deciso di presentarsi alle elezioni presidenziali previste il 9 agosto prossimo. O forse, come sostengono i suoi più feroci nemici, per la sua insaziabile sete di potere. Una cosa è sicura: alla vigilia del voto, la sua vittoria era data per scontata. Per i prossimi sette anni, sarà lui a guidare una nazione ancora in lotta contro gli spettri del genocidio.

“Sono ferite molto difficili da ricucire” mi disse il presidente rwandese in un primo incontro effettuato a Zurigo nel 2002. Seguì una seconda intervista realizzata nel 2003 all’indomani delle elezioni presidenziali. Ricordo un uomo sicuro di sé, convinto che “le divisioni etniche erano sul punto di essere superate” e per questo motivo irritato da quei “europei che continuano a vedere il Rwanda come un Paese diviso tra hutu, tutsi e twa, e che pensano che la maggioranza, gli hutu, debbano per forza ottenere la supremazia politica”. In entrambi le occasioni, l’aurea di persona cordiale ma decisa non si smentì.

Come ogni rwandese, Kagame non lascia trasparire nessun sentimento. Gioia e paura sono state seppellite anni fa. Prima con un’infanzia da rifugiato trascorsa in Uganda nella miseria sociale di un campo profugo, poi durante gli anni ’80 nelle fila della ribellione ugandese guidata da Yoweri Museveni. L’esperienza si rivela decisiva. La sua affinità con il fucile e la disciplina lo proiettano nel 1986 alla guida dei servizi segreti ugandesi. Via il suo idolo Che Guevara, è giunto il tempo di Ponzio Pilato, uno dei tanti soprannomi che gli si accolla. Al resto ci pensano gli Stati Uniti, che lo “impongono” nel 1990 alla guida del movimento ribelle tutsi del Fronte Patriottico Rwandese (FPR) per sconfiggere il regime rwandese pro-hutu sostenuto dalla Francia.

Dopo la sua vittoria nel 1994, Kagame si inventa un’altra guerra, questa volta in Repubblica democratica del Congo per andare a caccia degli estremisti hutu in fuga. Per anni le truppe rwandesi sono state accusate di fare terra bruciata del Congo orientale, uccidendo e accaparrandosi un volume impressionante di risorse minerarie (non furono gli unici responsabili, in RDC c’erano anche soldati ugandesi, burundesi, angolani e zimbabweani). Ogni presidente africano avrebbe moltiplicato i conti bancari all’estero, Kagame no.

Ma nel suo entourage, largamente dominato da ex compagni di guerra tutsi provenienti dall’Uganda, c’è chi ha accumulato fortune personali colossali. Addirittura sua moglie Jeannette avrebbe il monopolio dell’industria vinicola, mentre la stragrande maggioranza delle aziende e delle cooperative più grandi del paese sarebbero interamente controllate dal FPR.

Intanto il nostro uomo si affida alla sua vita di asceta (non beve, né fuma) e all’ultimo rapporto di Transparency International che cita il Rwanda “come il paese meno corrotto dell’Africa orientale”. Un successo conquistato con il sudore della disciplina, ferrea. Tra le sue ‘vittime’ si contano molti oppositori, ma anche i rwandesi a lui vicino non possono sentirsi al sicuro. Bastano pochi esempi.

Nel 2005, l’allora senatore ed ex capo di Stato maggiore Sam Kaka, eroe di guerra dopo aver conquistato Kigali nel 1994 viene buttato in carcere per essersi opposto a un mandato di cattura emesso contro un amico-imprenditore; la stessa sorte è toccata a un gruppo di alti funzionari tusti ugandofoni dell’esercito rwandese, reticenti all’idea di dover rendere migliaia di ettari di terreni agricoli acquistati illegalmente. Che dire poi del potentissimo uomo d’affari Tribert Rujugiro, tutsi pure lui e cacciato fuori da Kagame in persona durante una riunione di altissimo livello in cui una cerchia ristretta di fedelissimi doveva decidere chi degli Stati Uniti o della Cina doveva diventare il partner commerciale privilegiato del Rwanda.

Poche settimane fa è stata la volta del cognato del braccio destro di Kagame, “l’intoccabile” ministro della Difesa James Kaberege, arrestato (e poi rilasciato) dopo aver minacciato con la pistola un suo dipendente. “Se qualcuno vi dice che è un mio amico, è una bugia” dichiarò un giorno il presidente rwandese, “Kagame non ha amici”.

Secondo Jean-Claude Nkubito, giornalista rwandese e corrispondente della BBC Africa a Bruxelles, “in Rwanda non c’è foglia che si muova senza il suo consenso. Decide tutto lui. Ho messo in onda notizie che non gli sono piaciute, un amico vicino al potere mi ha detto che finché il presidente decide di lasciarmi in pace non può accadermi nulla”. Altrimenti? “Altrimenti non so che fine farò”. Che in Rwanda le critiche non fossero gradite è cosa risaputa.

Ma dal febbraio scorso, il paese è scosso da una serie inedita di attentati e omicidi che rischiano di minare la sicurezza del paese. A cavallo tra giugno e luglio, il direttore di un giornale di opposizione e il vicepresidente del partito dei Verdi (bandito dalle elezioni) sono stati uccisi.

Un terzo avversario, Kayumba Nyamwasa, generale che aveva cercato rifugio in Sudafrica (dopo aver accusato Kagame di corruzione), ha trovato cinque sicari rwandesi che gli hanno sparato nello stomaco di fronte al portone della sua casa di Johannesburg. I familiari delle vittime accusano il regime di essere all’origine di queste aggressioni, “falso” rispondono gli uomini del presidente che denunciano tentativi di destabilizzazione del Rwanda.

A Kigali qualcuno parla di lotte intestine tra falchi e colombe che nel 2009 sono quasi costate la vita al presidente, scampato per miracolo a un tentativo di omicidio organizzato nella sua residenza. Intanto inglesi e americani, suoi fedelissimi alleati, stanno dando segni di nervosismo. Più sorprendente è invece il loro silenzio sulla decisione del governo di cambiare 150 articoli della Costituzione a proprio favore.

Un esempio tra tanti altri che dimostra il disagio di una Comunità internazionale ancora in preda ai sensi di colpa per aver chiuso gli occhi sulla tragedia del 1994. Un rimorso che Kagame ha saputo ben sfruttare, avvalorandosi peraltro dei consigli di superconsulenti come Tony Blair (visto regolarmente a Kigali). Oppure piazzando con sorprendente facilità alcuni suoi uomini in alcuni posti chiave della delegazione europea.

Da Washington a Londra, passando per Parigi, New York, Bruxelles o Pechino, tutti sono convinti che a Kagame non ci sono alternative. In Occidente, c’è cerca di capire se l’uomo forte di Kigali saprà un giorno convincersi che sul lungo termine lo sviluppo del Rwanda e la riconciliazione tra hutu e tutsi passano anche per il rispetto dei diritti umani. Per ora, a ricucire lo strappo è un ‘economia rwandese in piena ascesa, un paese guidato con molta disciplina e la convinzione tra molti rwandesi che Kagame è l’uomo giusto al posto giusto.

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