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Vito Teti: «La dieta mediterranea? Nella realtà non esiste e non è mai esistita»
In un’era in cui ancora più pericolosa della fame è la solitudine alimentare, bisogna riflettere su come mangiano, quali sono gli stimoli che ci spingono ad acquistare il cibo, qual è oggi il nostro rapporto con la terra da cui provengono, quindi con la natura. Una riflessione che ci aiuta a fare Vito Teti, antropologo dell'alimentazione, grazie al suo ultimo libro “Dieta mediterranea. Realtà, mito, invenzione”, edito da Treccani, accompagnandoci in un percorso storico sulle culture alimentari
Chiamata spesso in causa alla vigilia della stagione estiva, sperando che possa essere la risposta a un anno di tavole imbandite di tutto e di più, la dieta mediterranea va oltre tutte le mode dei regimi consigliati per mantenere salute e benessere. Un’alimentazione ricca di cereali, legumi, frutta, verdura, pesce e pasta e povera di prodotti di origine animale che, fin dagli anni Cinquanta del secolo scorso, biologi, nutrizionisti e medici raccomandano per contrastare le malattie proprie delle società industriali. C’è, però, chi afferma che siamo davanti alla mitizzazione di un modello che non corrisponde a nessuna precisa realtà storica e geografica del Mediterraneo, visto che, per esempio, ancora nella prima metà del Novecento olio, grano e vino, la cosiddetta “trinità mediterranea”, entravano solo nelle cucine dei ricchi.
Direzione verso cui vanno da sempre gli studi di Vito Teti, uno dei massimi esperti di antropologia dell’alimentazione che, nel suo ultimo libro “Dieta mediterranea. Realtà, mito, invenzione”, edito da Treccani, traccia un quadro di un modello a quanto pare inesistente nella storia.
Un approccio storico che rivela tanto…
Della storia dell’alimentazione e del sistema alimentare mi sono sempre occupato fin da quando ero molto giovane, per esempio a 22 anni circa con la tesi di laurea con Diego Carpitella. Era il ’76 e subito dopo uscì il mio libro “Il pane, la beffa e la festa”, una ricognizione storico – antropologica sulle culture alimentari nelle classi subalterne in Calabria e nel meridione d’Italia. Un libro che, all’epoca, ebbe molto successo di critica di pubblico. Eravamo in un periodo in cui non si parlava tanto di cucina, ma neanche di storia dell’alimentazione. Non se ne occupava quasi nessuno in nessuna parte dell’Italia perchè non c’era una tradizione in tal senso. Un po’ di più, invece, aveva fatto l’antropologia straniera, quella americana e la francese. Dopodiché conobbi uno storico allievo prediletto di Fernand Braudel, il cui nome è Maurice Aymar, il quale aveva studiato anche l’alimentazione del Sud Italia, la diffusione dei grani e dei cereali, il modo di approvvigionarsi delle popolazioni in epoca moderna. Aveva studiato la Sicilia, così con lui cominciai a dare un’impronta storica al problema. Nello stesso tempo incontrai un altro personaggio mitico di quell’epoca, Emilio Sereni, che nel suo libro “I napoletani da mangiafoglia a mangiamaccheroni” segnava il passaggio da un’alimentazione dove la carne era più presente nel vitto insieme alle foglie e alle verdure. La pasta diventerà un argomento molto dibattuto, che arriverà a Napoli nel Seicento e guiderà l’alimentazione dei Meridionali.
Neanche il Covid ha fatto capire all’uomo che non è il signore dominatore assoluto del Pianeta e che, solo ritrovando il rapporto con la terra, l’essere umano può salvarsi
Vito Teti, antropologo dell’alimentazione
Siamo veramente davanti a quello che sembra più un mito e non la narrazione di un modello esistente nel tempo?
Questo é un argomento che lascio e prendo non con continuità, ma è l’ interesse di una vita. Quello che cerco di precisare già nelle mie prime indagini, sin da quando ero giovanissimo, è che l’espressione “dieta mediterranea” non esisteva, pur essendo stata individuata negli studi fatti nel Cilento e in altre parti come Nicotra, la Grecia e a Creta, dove se ne parla per indicare la bontà e il carattere salutistico di una dieta basata su vegetali, erbe, pesce, poca carne, olio d’oliva. Questo aspetto è sempre parso a me e ad altri studiosi più un ideale, una mitologia americana, perché i contadini in quel periodo morivano di fame. Per fare qualche esempio, l’olio non l’avevano perché condivano con il grasso, il vino era rarissimo. Il grano si mangiava, diciamo pure, solo sul letto di morte perché sulle tavole c’era pane nero, di mais, di castagno, persino pane di segale, d’orzo; tutto tranne che di grano. Parliamo di un’invenzione che arriva da popolazioni uscite dalla fame, come quelle americane, che oggi hanno problemi cardiocircolatori, vascolari, di obesità e che, quindi, devono cercare alternative alimentari. Dico anche che la dieta mediterranea oggi non la pratichiamo neanche noi perché ci abbuffiamo, mangiamo troppo, siamo uno dei popoli che consuma più grassi, più zuccheri, più schifezze. Ecco perché dico che la dieta mediterranea resta sempre un modello, ma non corrispondente alla realtà.
Quindi, di cosa dovremmo parlare per essere corretti?
Io preferisco parlare di cultura alimentare del Mediterraneo piu che di dieta mediterranea. Questo vuol dire che esistono delle culture tradizionali simili in tutti i luoghi del Mediterraneo, ma nello stesso tempo sono diversificate a seconda dei luoghi, delle produzioni, dei ceti sociali e dei diversi periodi storici. Per cui, un’idea di dieta mediterranea fissa, come dicevo, è un modello. Se, poi consideriamo che questo tipo di alimentazione non considera assolutamente quello che mangiano nei paesi africani, l’altra sponda del Mediterraneo, dobbiamo dedurre che il problema è quello di storicizzare culture alimentari che si modificano nel tempo e che oggi si devono misurare con altri modi di mangiare, con altre tradizioni, con altri prodotti che arrivano da lontano.
Qual è allora il reale problema di cui dovremmo occuparci?
Direi che è sapere cosa arriva sui nostri piatti perché non abbiamo assolutamente idea di quello che mangiamo, non sappiamo cosa si produce, chi lo produce, chi si arricchisce, se gli alimenti vengono alterati o meno. Tutto questo parlare di cibo non significa che alla fine mangiamo bene. Quello che qualcuno chiama “La repubblica dei cuochi”, con la televisione, i giornali e i media, ti prospetta modelli alimentari più vari, di cui però non hai conoscenza e controllo.
Nel libro lei esprime un concetto storico di Mediterraneo, in cui il valore rituale del cibo sembra essersi perso
Uno dei tratti delle culture alimentari del Mediterraneo non è tanto il cibo che si ingerisce, ma il valore simbolico, conviviale che assume la dimensione del banchetto, del mangiare assieme, della socialità, dell’offerta del cibo, del valore rituale del mangiare certi cibi. Per questo io preferisco parlare di “cultura alimentare” in quanto l’idea di una dieta che cura non può fissarsi sono su quello che viene ingerito. In realtà, noi mangiamo anche dei simboli. Lo abbiamo visto con il Covid, quando si mangiava con la famiglia. Una pratica che sembrava scomparsa e che, invece, per necessità, è tornata a fare parte della nostra vita. Anche l’uso di portare il cibo da fuori a chi non poteva uscire, ha introdotto pratiche alimentari che ritornano in momenti di necessità. Comportamenti che pensavamo rimanessero, una volta usciti dall’emergenza, e che, invece, abbiamo cancellato. Scampato il pericolo, l’uomo non riflette su quello che è utile, su quello che è necessario, su quello che è saggio rispetto al suo rapporto con la terra e gli animali. Da questo punto di vista l’uomo, invece di Sapiens, appare Insapiens.
Quindi, a cosa è legata la scomparsa del rito che attiene alla condivisione della tavola, al far da mangiare anche per offrire e servire le pietanze a chi non aveva le possibilità?
Soprattutto nel Sud rimane la dimensione conviviale del mangiare assieme, ma tutti quei rituali che erano legati a una società dove non c’era benessere e si aveva la necessità di sostenersi, di aiutarsi, legando il cibo alle stagioni, alla terra e alla festa, sono andati scomparendo. Abbiamo subito un processo di omologazione. I piatti tradizionali oggi non li fai più, o meglio li fai quando vuoi, non più in specifiche occasioni. Questa perdita di rapporto con la terra ha cambiato tante cose anche perchè, inoltre, una volta, i contadini sapevano cosa mangiavano perché lo producevano loro stessi, mentre oggi brancoliamo nel buio. Siamo stati espropriati di questo sapere, di questa conoscenza alimentare; tutto quello che ci circonda sono finzioni, slogan, pubblicità, interessi delle multinazionali dell’industria alimentare.
Il tema della restanza, a lei molto caro, può essere legato anche al cibo, alla necessità di recuperare il valore dei luoghi per poter recuperare quello dei sapori?
Io credo che sia importante restare, ma in maniera nuova nei luoghi. Continuo a dirlo, si può fare ritrovando il rapporto con la terra e con quello che ti offre. Il valore che stiamo perdendo, per esempio, è quello della biodiversità, che va tutelata per la molteplicità di alimenti, di piante che vengono prodotte non solo nel Sud. Dobbiamo provare a creare una nuova cucina radicata nel passato, ma con un nuovo rapporto nel presente con la natura. Oggi, invece, siamo per la società dello spreco dove si butta tantissimo cibo, mentre milioni di persone mangerebbero abbondantemente con i nostri scarti. E allora, educazione alimentare significa sapere cosa mangi, ma sapere anche quello che ti serve per sopravvivere, per vivere bene. Sprecare è un fatto di ingenerosità e ingiustizia che, per esempio, compiamo disperdendo litri e litri di acqua lasciando i rubinetti aperti. Dobbiamo porci in maniera critica, pensando agli altri che non hanno queste nostre disponibilità.
Quando parliamo di cibo dobbiamo parlare di cultura?
Certamente, il cibo è cultura. Come diceva qualcuno, è un fatto sociale che ha a che fare con la produzione, ha a che fare con il commercio, con la religione, con i cerimoniali, con le relazioni che si stabiliscono con le persone. Non ci pensiamo, ma il cibo oggi domina la nostra vita per il semplice fatto che, se non mangi, muori. Ma puoi morire anche se mangi male, puoi morire anche di eccessi nutritivi. Ci sono due antropologi, due studiosi che a me piace citare, Ernesto De Martino e Jean Baudrillard, che dicono che “ancora più pericolosa e più brutta della fame é la solitudine alimentare e il mangiare da soli”. Se in una società si mangia da soli significa che siamo arrivati alla fine perché, invece, dovrebbe essere naturale condividere. Stare da soli significa cadere nella chiusura, nell’egoismo, nell’impossibilità di comunicare; e questa è già una sorta di morte.
Il suo libro ci offre lo spaccato di un’umanità che ci dice cosa?
Il tipo di umanità che esce da questo lavoro è un’umanità che non sa gestire regolamentare rapporti con la terra e con la produzione. Un’umanità che spreca e produce un mondo disuguale. Perché accanto a popolazioni che mangiano troppo ne esistono tante altre per le quali il cibo è un problema quotidiano. Un pianeta così disuguale, così litigioso, in qualche modo è ovvio che corra rischi notevoli per la sua sopravvivenza. E la dieta mediterranea non potrà certo essere la sua salvezza.
Lei riesce ad applicare queste piccole regole di vita sana e utile?
Io dico che si possono fare delle cose che ti migliorano la vita: per esempio informarti su cosa mangi, capire quello che ti fa bene che cosa non puoi mangiare, capire quando mangi in eccesso, riscoprire la bellezza del mangiare assieme, assaggiare, camminare in mezzo alla natura ed essere a contatto anche con il mondo animale. I bambini mangiano carne di animali che neanche conoscono e che non hanno neanche mai visto. Arriviamo al paradosso che, anni fa, una scolaresca di una parte del mondo pensava che che le patatine nascessero con le bustine sugli alberi. Assurdo, ma vero. Questa continua rimozione del nostro rapporto con la natura e con la produzione alla fine ci rende ignoranti comportando perdita di consapevolezza e di responsabilità. Questo, se non è la fine del mondo, è comunque una certa fine del mondo. L’uomo é antropocentrico, come se il Pianeta, se l’Universo, fosse stato creato e destinato solo a lui, mentre sappiamo che potrebbe fare a meno di tutti noi, anche perché si sono altre specie animali, vegetali e minerali che sono essenziali anche più dell’uomo essenziali per la vita della Terra. Una boria antropocentrica che non ha motivo di esistere perché, alla fine, potrebbe portare verso l’estinzione della specie umana. Il Covid ci ha spaventato lì per lì, sono cambiate tante cose, ma non si è presa consapevolezza di quello che potrebbe accadere ancora. Abbiamo il surriscaldamento, la grande crisi economica, abbiamo popoli che migrano a milioni, abbiamo terre che si spopolano quasi completamente, c’è il rischio atomico, ma di tutto questo sembra che l’uomo non si renda conto. Non capisce che è seduto su un burrone, un baratro, e potrebbe cadere da un momento all’altro.
La foto di copertina è stata fornita da Vito Teti
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