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Vite in viaggio. In autobus dal Sud alla Germania
Viaggiano soli, hanno tablet in mano e smartphone nella tasca. Un trolley ha preso il posto della valigia di cartone: sono i nuovi emigranti, 82 mila italiani - quasi tutti giovani, quasi tutti dal Sud - che se ne stanno andando. Nessuna nostalgia, nessun rimpianto, molte urgenze pratiche, certo: ma è la necessità di sperimentare un diverso modo di stare al mondo a spingerli lontano
di Marco Dotti
Viaggiano soli, hanno tablet in mano e smartphone nella tasca. Un trolley ha preso il posto della valigia di cartone: sono i nuovi emigranti – quasi tutti giovani, quasi tutti dal Sud – che se ne stanno andando.
Di questo mondo in pezzi, loro sono i pezzi migliori. Nessuna nostalgia, nessun rimpianto, molte urgenze pratiche, certo: ma è la necessità di sperimentare un diverso modo di stare al mondo a spingerli lontano. La loro non è una fuga, non un esilio. È una diaspora. Appartengono a un popolo sradicato nella propria terra, ma ambiscono a un popolo ancora là da venire.
I dati dell'Istat sul bilancio demografico, d'altronde, almeno in questo caso parlano chiaro: nel 2013, 82 mila italiani si sono trasferiti all’estero (14mila in più rispetto al 2012). Siamo di fronte al valore più alto registrato nel corso degli ultimi dieci anni.
Il ritorno delle quattro ruote
Si spostano su quattro ruote, servendosi di una rete strutturata di pullman gran turismo, con servizi e collegamento wifi, che, partiti dalla Sicilia, risalgono per l'Italia su, fino a Monaco, Innsbruck, Francoforte e Amburgo. "Un tempo", mi racconta un conducente, "questi erano i mezzi del ritorno. Tenevano in contatto gli emigrati con le famiglie". Oggi questa funzione non è cambiata, è però cambiata la modalità di tornare: "questi ragazzi sono abituati al viaggio, conoscono le lingue, non si rinserrano in piccole comunità".
I vecchi vagoni di terza classe, quelli immortalati nei film di Germi (pensiamo al Cammino della speranza, del 1950), oggi sono pullman da cento posti che hanno qualcosa di epico, quando si lasciano alle spalle il tramonto e il mare e si dirigono verso Monaco, Innsbruck o quella Duisburg diventata tristemente famosa per i fatti di 'ndrangheta nel ferragosto del 2007.
Non possiamo dire cosa diventeranno questi giovani o che ne sarà di loro. Certo è che a muoverli è un'inquietudine di tipo diverso, esistenziale forse ancora più che materiale. Non cercano oasi nel deserto, ma qualcosa – in mancanza di qualcuno – che li porti fuori dalla sabbia e dal nulla. E "trovano in questi mezzi", prosegue il nostro autista, "un alleato fedele". Economico e pratico, "certo" – prosegue – "quando devi uscire dalla Salerno-Reggio Calabria, per raggiungere i punti di raccolta, e arrampicarti tra svincoli e tornanti, non è semplice". Come non è semplice vincere la stanchezza, ma alla fine "il viaggio è un'esperienza anche per noi", conclude.
Frontiere d'asfalto
Salgo a Cosenza e da lì fino a Amburgo. Ciò che mi appare è un'Europa diversa, percorsa da frontiere, attraversata da linee di chiusura e da soglie spesso invisibili sulle mappe. Per una ragione semplice, ma non scontata: una mappa non è mai il territorio che descrive. Un territorio è complesso, mobile e una mappa, per quanto riesca a rendere quella complessità, sforzandosi di conservarne la dinamica, ha sempre qualcosa di statico che non la rende mai interamente sovrapponibile alla realtà.
«Per l'emigrante non c'è passato, non c'è presente, c'è solo il futuro». Nell'ebook che Mario, 23 anni, porta con sé, nascosto tra le pieghe del suo ipad, ci sono queste parole. Le ha evidenziate e me le mostra come a dire: "capisci?" Capisco, o almeno credo di capire. Per lui – che studia sociologia a Amburgo, in un istituto di grande prestigio, dove sta tornando dopo le vacanze estive “al paese” – non è affatto singolare che queste parole risuonino oggi, dentro una delle crisi più feroci che il capitalismo abbia mai conosciuto. Non è singolare perché a pronunciarle, nel 1902, nelle pagine del suo Der moderne Kapitalismus, fu una delle menti più lucide del secolo breve: Werner Sombart. Un tedesco, oltretutto.
Sombart – mi spiega, mentre un suo compagno di viaggio che sta lasciando la Calabria per la prima volta ci guarda incuriosito – “scrisse che chi emigra è più pronto al cambiamento, se ne fa attore. Per questo molti emigrati sono diventati imprenditori e hanno storie di successo”. Attraverso l'emigrazione, scrive in effetti Sombart, e persino attraverso l'oppressione, “si selezionano le nature che hanno perso la pazienza di mendicare”. E forse, retorica a parte, anche questo conta nella loro decisione: hanno perso la pazienza, la pazienza di mendicare mezze raccomandazioni, mezzi favori, mezzi concorsi, mezze speranze.
Vogliono un presente, non un “futuro”. E, in questo, la loro pratica migratoria è un modo per lasciarsi alle spalle uno sradicamento ben più oppressivo di quello che – eventualmente – potrebbero incontrare.
Questi viaggiatori, però, assomigliano più a quelli descritti da un contemporaneo di Sombart, Georg Simmel:
“Se l'errare, considerato come situazione di distacco da ogni punto dato nello spazio, si oppone concettualmente al fatto di essere fissati in un punto, allora la l'orma sociale dello straniero rappresenta in una certa misura l'unità di queste due caratteristiche – rivelandosi così anche qui come il rapporto con lo spazio non sia solamente la condizione determinante, ma anche il simbolo di qualsiasi rapporto umano. Non si intende qui infatti lo straniero nel senso comune del termine, come il viaggiatore che oggi arriva e domani partirà, ma come quello che oggi arriva e domani resterà – per cosi dire, il viaggiatore potenziale, che nonostante si sia fermato, non ha ancora rinunciato alla libertà di andare e venire”.
Vite in viaggio
Le vite in viaggio dietro i numeri ci raccontano di giovani che, in massa, partono dalla Sicilia e dalla Calabria, soprattutto dalla Calabria, per non tornare più. Spesso se ne vanno per studiare, spesso per lavorare, quasi mai partono solo per partire, comunque mai senza un investimento affettivo e persino economico che le famiglie fanno su di loro e per loro.
Il viaggio di questi giovani ha così una sua “densità affettiva” che sfugge ai numeri. I numeri fotografano indubbiamente una realtà, ma una realtà che ancora stenta a imporsi alla nostra attenzione e al nostro immaginario tutto centrato sull'Italia come luogo di immigrazione e non di emigrazione. Temiamo l'arrivo, ma ci nascondiamo la fuga. Forse questa Italia non è un inferno da cui fuggire, ma di certo non è un porto franco per nessuno. Nemmeno per chi ci è nato.
1/parte
@oilforbook
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