Welfare
South working. Si può fare
L’85,3% degli intervistati andrebbe a vivere a Sud se fosse permesso loro (e fosse possibile) mantenere il lavoro da remoto.
South working, ovvero lavorare da Sud. Il modello di lavoro agile che può ridare slancio ai territori e produrre innovazione ma anche felicità che in termini di produttività per le aziende, statisticamente dedotta, coniuga un miglioramento in entrata e in uscita del 15 – 20%.
Una conferenza stampa online promossa da Fondazione con il Sud ha presentato al mondo globalizzato della rete Sourh working, l’ associazione nata al tempo del primo look down da giovani professionisti, manager e accademici tornati a vivere a Sud, loro terra di origine, pur mantenendo il lavoro per aziende dislocate in altre regioni d’ Italia.
«Un’ idea nata a marzo, da sud, dove sono tornata (Sicilia – Santo Stefano di Camastra ndr) e dalle aree interne come possibilità per il dopo covid che porta con se una posizione di reciproco vantaggio: coniugare quel 15% 20% di miglioramento dell’ incremento della produttività. – dice Elena Militello, Presidente e fondatrice di South Working Lavorare dal Sud -. Riportare sui territori delle masse critiche di capitale umano che possano migliorare le comunità nelle quali sono rientrare e costruire intanto rete di supporto e sviluppo locale per il lavoro agile».
In questi mesi si è dato un nome al fenomeno, South Working appunto e strutturato il lavoro che «ha trovato in Fondazione con il Sud – dice Carlo Borgomeo in apertura – ampio consenso perché da sempre promuoviamo processi che possano rendere attrattivi i territori del Sud. Con altri progetti abbiamo favorito il trasferimento al sud di ricercatori del nord o stranieri. Perché crediamo fermamente che al sud si può fare. E questo di South Working è perfettamente in linea con i nostri obiettivi» .
Così come afferma anche Giorgio Righetti, Direttore generale di ACRI (Associazione di Fondazioni e di Casse di Risparmio) e consigliere di amministrazione di Fondazione con il Sud –«elementi di valore sono legati al fatto di portare attività che producono reddito, competenze e capitale umano a Sud da cui creare opportunità di sviluppo per le aree interne. Un processo basato su due elementi fondanti: vantaggio per il territorio e interesse per le aziende, efficienza ed efficacia del lavoro prodotto».
Una realtà che già conta 7.300 persone iscritte alla pagina Facebook, con un pubblico di circa 30.000 persone ogni mese; circa 2.400 si sono iscritte alla comunità peer-to-peer su Facebook per la condivisione di esperienze; circa 2.000 hanno già risposto a un questionario esplorativo per i lavoratori dal quale è emerso che l’80% ha tra i 25 e i 40 anni, possiede elevati titoli di studio, principalmente nei settori di Ingegneria, Economia e Giurisprudenza, e ha un contratto di lavoro a tempo indeterminato nel 63% dei casi.
Tra le parole d’ ordine dei southworker ci sono «Presidi di comunità per un welfare diffuso, luoghi di dialogo intergenerazionale, lavoro, socialità, sviluppo e creatività, beni comuni digitali». – Afferma Mario Mirabile, Vicepresidente e co-fondatore di SW–. E poi ancora, per parlare di organizzazione, analisi e sviluppo «abbiamo creato una mappa che tracci i luoghi di co-working esistenti ma anche quelli possibili, presenti su tutto il territorio italiano e che possa individuare le diseguaglianze infrastrutturali per superarle».
I numeri dicono, da una prima traccia, che gli di spazi di lavoro condiviso sono 1 per ogni 137 mila abitanti a Palermo contro l’1 ogni 30mila abitanti a Milano.
Tra i dati, fin qui raccolti da South working e che saranno resi pubblici nel Rapporto SVIMEZ 2020 che includerà un Focus dedicato ai lavoratori dal Sud, uno salta sul podio dell’ attenzione: l’85,3% degli intervistati andrebbe o tornerebbe a vivere a Sud se fosse permesso loro (e fosse possibile) mantenere il lavoro da remoto.
Ed è quello che hanno fatto Giulia e Marta, romana la prima e milanese la seconda. Testimonial ante litteram che lavorare da Sud è possibile e anche produttivo di benessere economico e felicità personale e sociale. Lavorano da remoto da sempre, ma oggi lo fanno da Palermo. «Avevamo voglia di conoscere il sud – raccontano – e a Palermo ci siamo venute in vacanza, subito dopo il lookdown. Oggi è la nostra sede di lavoro. In pochi giorni ci siamo rese conto che qui era tutto più facile, dagli spostamenti alla qualità della vita. Abbiamo trovato con una dimensione umana diversa, quella di cui avevamo bisogno».
Quello che emerge dal dialogo tra i fondatori di South Working e i relatori sembra raccontare un tempo lungo, quello che solitamente spetta ai cambiamenti strutturati ma in realtà si parla del «prodotto della pandemia, dalla paura del Covid, che in pochi mesi ha creato il più grande cambiamento organizzativo mai avvenuto. 8milioni di persone in Italia e 1miliardo nel mondo si sono adeguate alla modalità di lavoro agile» ha affermato Domenico De Masi, professore emerito di Sociologia del lavoro dell’ Università “La Sapienza” di Roma. «Dalla fine degli anni 80 promuovo il telelavoro e in questo anno terribile la sorpresa e la soddisfazione di vedere affermato quel cambiamento auspicato che porta con se vantaggi per due collettività: le città da cui si parte e quelle in cui si arriva. Dalla riduzione di CO2, ad esempio, alla decongestione dei mezzi di trasporto per le prime e alla rivitalizzazione di zone spopolate per quelle di approdo o ancora il vantaggio per persone fragili o con disabilità a cui sarebbe possibile estendere opportunità di lavoro».
Per maggiori info e per co-partecipare a south working segnaliamo il sito southworking.org
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