Incontri

Parità di genere: troppe discriminazioni in Italia, anche nel Terzo settore

Ultimo seminario Fqts in Sardegna per il 2023. Anche le realtà del sociale, nell'Isola come nel resto del Paese, mostrano tante contraddizioni. Una su tutte: ci sono più donne che uomini (3 milioni contro 2,8) ma ai vertici la componente maschile è nettamente predominante

di Luigi Alfonso

Le disuguaglianze di genere (gender equality) sono individuate tra le priorità trasversali alle azioni del Piano nazionale di ripresa e resilienza – Pnrr. E questo perché sono riconosciute come uno dei problemi strutturali che rallentano lo sviluppo del nostro Paese. Il peso delle discriminazioni appare ancora più grave se si considera che i dati su istruzione e qualità delle carriere di formazione vedono da molti anni le donne in netto vantaggio rispetto agli uomini. Di questo si è parlato oggi a Nuoro nel corso dell’ultimo appuntamento annuale del progetto Fqts in Sardegna, dal titolo “Terzo Settore e questioni di genere”. I lavori sono stati coordinati da Mauro Giannelli e Patrizia Bertoni, rispettivamente coordinatore nazionale e responsabile segreteria nazionale organizzativa del progetto Fqts (acronimo di Formazione quadri Terzo settore).

«Con questi seminari, abbiamo aperto nei territori del Sud Italia un percorso di riflessione sulle questioni di genere», spiega Gaia Peruzzi, docente di Media, genere e diversità alla Facoltà di Scienze politiche, sociologia e comunicazione della Sapienza Università di Roma. «Sappiamo che in Italia ci sono ancora molte discriminazioni nei confronti delle donne e di quelle categorie, come omosessuali e più in generale le identità Lgbtq, che soffrono di discriminazioni all’interno della nostra società. In particolare, ci rivolgiamo alle organizzazioni del Terzo settore e alle altre istituzioni».

La tabella mostra il gap che separa l’Italia dagli altri Paesi europei

«Chiediamo soprattutto alle realtà del mondo del Terzo settore di auto-mapparsi: quante donne hanno nei ruoli dirigenziali? E quante nei ruoli di presidente?», incalza Peruzzi. «Devono imparare a interrogarsi e a volgere lo sguardo al loro interno, anche se sono più abituate a costruire e a progettare i servizi sul territorio. Devono aprirsi alla riflessione e ascoltare le loro voci: questi appuntamenti sono soprattutto luoghi di ascolto e confronto. Devono infine porsi alcune domande: quali spazi di ascolto, quali strategie, quali attività stanno aprendo al loro interno per ascoltare nuovi soggetti e nuove identità, come donne, identità Lgbtq e giovani».

La professoressa Gaia Peruzzi (Sapienza Università di Roma)

«È un problema che riguarda in particolare l’Italia, ma più in generale tutti i Paesi europei», le fa eco Lucia Coi, presidente del Csv Sardegna e responsabile nazionale Anpas della formazione, Terzo Settore e questioni di genere. «Ne sono parzialmente colpiti i Paesi del Nord Europa, nei quali c’è una maggiore inclusione delle donne: lo dicono tutte le statistiche, in particolare quelle del “Report Global Gender gap” che raccoglie i dati relativi a salute e alla leadership in politica. È evidente ancora un notevole divario tra donne e uomini, che colpisce anche il mondo del Terzo settore, nonostante la grande partecipazione delle donne (in Italia sono tre milioni mentre gli uomini arrivano a quota 2,8 milioni, ndr)».

«Ebbene, è stato osservato che ai livelli più alti di gestione delle organizzazioni, la partecipazione femminile va via via scemando fino ad essere quasi inesistente», prosegue Coi. «Questo discorso si estende a tutti gli ambiti della nostra vita sociale perché fonda le sue radici su stereotipi e processi culturali che sono ormai incancreniti nella nostra società e che quindi fanno parte di fatto della nostra cultura e del nostro pensiero. Se da una parte sono state avviate una serie di normative che favoriscono la partecipazione delle donne e la riduzione di questo divario, anche in termini retributivi rispetto agli uomini, serve ancora molta azione soprattutto da parte nostra che facciamo parte delle organizzazioni di volontariato e di tutto il mondo del Terzo settore, per far sì che non solo ci sia un supporto normativo ma anche un cambiamento di rotta della nostra mentalità, della nostra cultura e del nostro modello di pensiero».

Lucia Coi, presidente del Csv Sardegna

Per Carla Medau, che in passato ha ricoperto per diverse legislature gli incarichi di sindaca e assessora provinciale, «anche il linguaggio ha la sua importanza, ma attenzione: non è un problema di grammatica, che coniuga tutto sia al maschile che al femminile. Piuttosto, dipende dall’uso che si fa della lingua italiana. E spesso siamo noi donne a opporci a questo cambiamento, che è in atto da tempo ed è irreversibile: penso al caso della presidente del Consiglio dei ministri, Giorgia Meloni, che preferisce farsi chiamare al maschile: il presidente. Forse perché conferisce al suo ruolo un peso differente».

Carla Medau e, a destra, Patrizia Bertoni

«La Certificazione di genere per le imprese è una pratica utile, e questo vale anche per anche per gli enti del Terzo settore», spiega Pierangela Pisu, esperta di progettazione e Gender equality per la pubblica amministrazione. «I vantaggi per le imprese sono di diversa natura: alcuni sono più decisamente economici, come la defiscalizzazione per gli oneri sociali e un migliore accesso ai finanziamenti agevolati per gli appalti pubblici. Altri invece sono di più largo respiro e forse meno immediati, però più importanti perché fanno sì che l’organizzazione acquisti maggiore visibilità e appeal nei confronti del proprio target, un miglioramento della sostenibilità dell’impresa, la riduzione del burnout (condizione di stress cronico e persistente in un contesto lavorativo, ndr) e del turnover perché le persone stanno bene. Inoltre, abbiamo l’effetto di essere scelti nel processo di qualifica dei fornitori perché le imprese sono sempre maggiormente interessate ai temi etici della diversità e della parità di genere. Si è più attraenti anche per i talenti professionali: ormai sappiamo che le nuove generazioni vogliono lavorare in ambienti inclusivi. Questi vantaggi possono essere declinati anche per le organizzazioni che non sono propriamente imprese, perché riescono anche a interpretare questo cambiamento sociale che è in atto e che è inarrestabile, in modo tale che quella diversità verso la quale dobbiamo apporci in maniera responsabile venga valorizzata al proprio interno. È uscito un bando che offre i voucher alle imprese per usufruire di esperti che li accompagnino nel processo della certificazione. L’obiettivo a livello nazionale è di certificare mille imprese entro il 2026. Tramite l’Unioncamere, il dipartimento delle Pari opportunità sta agevolando e finanziando il processo di certificazione delle imprese, richiesto a tutti gli enti di ricerca che desiderano partecipare ai bandi Horizon: si chiama Gender Equality Plan – Gep, un piano strategico per la parità di genere. L’Università di Cagliari, per esempio, ha completato il percorso di recente».

Pierangela Pisu, esperta di progettazione e Gender equality

«Il seminario di oggi ha affrontato una delle questioni che in Sardegna e in tante altre regioni del Mezzogiorno è fondamentale rispetto allo sviluppo dell’intero sistema regionale», è il parere di Andrea Pianu, portavoce del Forum Terzo settore Sardegna. «L’occupazione femminile – l’elemento che emerge con maggior forza rispetto al tema della disparità di genere: è un nodo che è stato al centro sia della programmazione regionale “Sardegna 2030” – mostra indici di occupazione femminile molto al di sotto delle medie regionali e degli altri Paesi. Da questo punto di vista, il Terzo settore ha un ruolo da svolgere dal punto di vista culturale, di sensibilizzazione e anche di pressione nella costruzione di politiche da parte delle istituzioni a livello locale e regionale. I temi sono noti: servizi per la conciliazione dei tempi di vita, gli asili nido, il supporto familiare alle persone anziane che stanno a domicilio. Tutte attività nelle quali il lavoro di cura femminile porta via tempo e disponibilità all’impegno in un lavoro. È noto che il lavoro familiare spesso non è riconosciuto, e questo è un gap che va superato. C’è inoltre un’azione culturale di sensibilizzazione che investe le associazioni del Terzo settore nelle loro articolazioni: dobbiamo chiederci quante delle nostre esperienze in realtà stiano accompagnando la formazione e l’ampliamento dei gruppi dirigenti di responsabilità da parte delle donne. Non è semplicemente una questione numerica, è la questione di costruire poi un approccio diverso nell’affrontare i problemi. Un altro tema riguarda noi maschi: fondamentalmente dobbiamo acquisire e sviluppare un percorso di cambiamento personale e culturale».

Andrea Pianu, portavoce del Forum Terzo settore Sardegna

Sabrina Perra, sociologa del dipartimento di Scienze politiche e sociali dell’Università di Cagliari, è un’esperta dei processi economici e del lavoro. Mostra i risultati di una ricerca a livello nazionale e locale che descrive il rapporto tra le donne e il Terzo settore, in particolare come lavoratrici e volontarie. «Le donne scelgono il Terzo settore o sono scelte, sia come imprenditrici che come lavoratrici dipendenti?», è stata la sua prima provocazione all’uditorio. «Dobbiamo fare attenzione alla creazione del lavoro povero e di bassa qualità, soprattutto al Sud e nelle isole. Sono notevoli i divari territoriali e di genere. In Italia abbiamo quasi due milioni di volontarie. E 700mila lavoratrici su 850mila ci raccontano che le donne sono fortemente impegnate in questo ambito. Se leggiamo i dati precedenti al Covid, vediamo come negli ultimi 10 anni il numero delle donne volontarie sia cresciuto del 25% e quello delle addette dell’11,7%. I dati sui ruoli apicali, soprattutto in alcuni settori, disegnano un quadro diverso: maggiore presenza maschile a scapito di quella femminile. Unica eccezione è nel mondo della cooperazione internazionale dove il 30,9% degli incarichi di dirigenza e presidenza viene ricoperto da donne (dati Open Cooperazione)».

La sociologa Sabrina Perra, dell’Università degli studi di Cagliari

Daniela Schirru, responsabile della commissione Pari opportunità di Legacoop Sardegna, ha illustrato l’attività dell’associazione di categoria che da tempo si sta occupando dei temi della parità e della certificazione di genere. «Costituiscono uno strumento di sviluppo per le nostre imprese. Legacoop ha sposato il progetto della sostenibilità, quindi gli obiettivi dell’agenda 2030», spiega. «L’Obiettivo 5 riguarda proprio questa tematica. Riteniamo che la certificazione di genere sia uno strumento molto efficace su base volontaria ma premiale, e spinge le imprese nel fare una fotografia della situazione attuale e migliorativa sulla presenza delle donne e il ruolo delle donne all’interno delle nostre imprese. Le nostre cooperative hanno insiti nei loro valori anche quelli dell’inclusione e della tutela delle diversità, quindi direi che siamo a buon punto dal punto di vista valoriale ed etico. Sotto il profilo della consapevolezza stiamo ancora lavorando, ma molte imprese sono interessate alla certificazione di genere: alcune perché è un requisito per le gare d’appalto finanziate dal Pnrr, dunque danno una premialità; altre cooperative lo fanno perché già da tempo adottano questi sistemi ma non li hanno ancora resi evidenti. Dal punto di vista reputazionale è una cosa positiva».

Daniela Schirru (commissione Pari opportunità di Legacoop Sardegna)

I lavori si sono chiusi con gli interventi di un gruppo di ragazzi degli Sport Agents che partecipano al progetto Sport Power, coordinato in Sardegna dall’associazione “Elda Mazzocchi Scarzella”. Giovani interessati al tema perché, a febbraio, si recheranno in Marocco per un progetto di cooperazione internazionale, finanziato dalla legge 19/96, dedicato proprio alle pari opportunità. Stimolati dalle domande dei coordinatori e dei relatori, il confronto tra differenti generazioni è risultato di particolare interesse: gli adolescenti confermano una maggiore predisposizione alla parità di genere. E anche questo dovrebbe far riflettere. Il cammino è decisamente ancora lungo.

Per vedere due videointerviste cliccare qui.

17 centesimi al giorno sono troppi?

Poco più di un euro a settimana, un caffè al bar o forse meno. 60 euro l’anno per tutti i contenuti di VITA, gli articoli online senza pubblicità, i magazine, le newsletter, i podcast, le infografiche e i libri digitali. Ma soprattutto per aiutarci a raccontare il sociale con sempre maggiore forza e incisività.