Famiglia

Padri in pena: un percorso di sostegno alla genitorialità in carcere

I padri detenuti si sentono totalmente delegittimati, sono convinti di non avere un posto. Per un padre, il carcere è un serio pericolo per gli scopi della sua esistenza, per la sua autostima. Un progetto sostenuto dalla Fondazione Casillo getta luce su questo tema di grande rilevanza sociale

di Marilù Ardillo

Se vi domandassero di chiudere gli occhi e pensare a un padre insieme a suo figlio, dove li immaginereste? Difficilmente potreste pensarli in una stanza angusta, separati da un mezzo divisorio. Quante cose riesce a raccontare un bambino in appena 60 minuti? Quante ne riesce a dire un padre? Seduti ad un tavolo non si possono condividere esperienze: si possono ricordare, se ve ne sono state, o si possono sperare.
Difficilmente un bambino si rassegna ad accettare che suo padre non possa tornare a casa con lui e sua madre. Mangiare insieme un piatto di pasta, scegliere un cartone animato, trovarlo all’uscita di scuola.

Come si spiega ad un bambino che suo padre non può varcare quella soglia per mostrargli il mondo? Esiste una moltitudine di paternità possibili. In passato un uomo umile riusciva a dare il buon esempio a suo figlio perché svolgeva un lavoro onesto. Oggi sembra non sia più abbastanza: oggi è necessario anche spiegare, sapere.
In quelle che vanno delineandosi ormai come norme genitoriali di classe, coloro che nella società si collocano al margine ne escono assai penalizzati. In modo particolare i detenuti, che in nome della loro condizione sociale si sentono del tutto squalificati.

La genitorialità si muove dunque su tre piani: quello dell’esercizio, della pratica e dell’esperienza. Ma come si fa quando ci si è messi in condizione di vivere in isolamento? Già dagli anni ’70 numerose ricerche in campo analitico hanno dimostrato che un rapporto di familiarità tra padre e figlio aumenta il senso di sicurezza nel bambino, contribuisce a formarne l’identità e a svilupparne l’autonomia.
Madre e padre sono importanti, ciascuno offre il proprio contributo allo sviluppo.
Gebauer, pedagogista e psicoterapeuta tedesco, ci insegna che un atteggiamento amorevole, interessato e caloroso di un padre è il presupposto migliore per conseguire capacità spirituali, emozionali e manuali rispetto al mondo.
Le esperienze che i figli vivono grazie ai loro genitori danno origine ad atteggiamenti empatici nei confronti delle altre persone, e il padre in modo particolare soddisfa il bisogno del bambino di essere stimolato e incoraggiato a superare i propri limiti, imparare a correre dei rischi.

La detenzione minaccia e spesso distrugge la capacità di essere padri. Talvolta è necessario che i genitori detenuti siano sorretti e accompagnati nell’esercizio del proprio ruolo, perché il confronto con il giudizio sociale, che varia a seconda delle culture, è spesso feroce.
Quasi mai crediamo che un detenuto possa essere un buon genitore: la società si chiede cosa sia in grado di offrire ad un figlio un uomo incapace di discernere tra il bene e il male.
Si è portati inconsapevolmente ad identificare il detenuto con il reato commesso, perché non rispetta le norme di comportamento generale.
In questi anni intere generazioni di padri si sono scoperte spaesate, incapaci di comprendere quale ruolo esercitare, vivendo in funzione di quanto stabilito dalla madre.

I padri detenuti si sentono totalmente delegittimati, sono convinti di non avere un posto, spesso le madri interrompono i contatti e il nucleo familiare si rompe. Il carcere per un padre è un serio pericolo per gli scopi della sua esistenza, per la sua autostima, per il suo sistema difensivo, che nel tempo si concretizza in una progressiva disorganizzazione della personalità.

Coloro che mantengono rapporti famigliari durante la detenzione sono persone che rappresentano un rischio minore per la società, una volta riconquistata la libertà, e sono meno inclini ad episodi di violenza e insubordinazione all’interno del carcere.

Ma qual è il punto di vista dei figli? Sono circa 100.000 i bambini che in Italia hanno almeno uno dei due genitori detenuti. La detenzione per un bambino significa perdita di riferimento, di storia, di legame. Ciò che sperimenta è che un adulto che si prendeva cura di lui lo ha abbandonato.
Se non viene ascoltato, se i suoi sentimenti vengono ignorati o repressi, se viene a mancare la conoscenza della realtà, può sviluppare solo idee parziali o rappresentazioni distorte di sé e del mondo.
I bambini con padri detenuti hanno più difficoltà nel sopportare la frustrazione e sono preda di angosce maggiori, che non sanno rielaborare.

L’importanza del padre per un figlio è dunque assoluta. E i dati forniti da alcune indagini svolte negli Stati Uniti lo gridano a voce alta: il 60% degli stupratori, il 72% degli assassini adolescenti, il 70% degli ergastolani e il 71% dei ragazzi che abbandonano la scuola sono cresciuti senza figura paterna (Barzagli, 2013).

Tutelare le persone private della libertà con anche i loro familiari, in particolare i figli, è da tempo interesse della Comunità Internazionale.

Nel 2012 viene presentata dal Ministro della Giustizia la “Carta dei diritti e dei doveri dei detenuti e degli internati” che sottolinea, tra le varie cose, l’importanza del mantenimento dei rapporti familiari. Il 21 Marzo 2014 viene approvata la “Carta dei figli dei genitori detenuti”, poi rinnovata nel 2018, un protocollo d’intesa firmato dal Ministro della Giustizia, dal Garante per l’infanzia e l’adolescenza e dalla Presidente dell’Associazione Bambinisenzasbarre ONLUS.

Primo documento del genere in Italia e in Europa, riconosce e garantisce in modo formale il diritto dei figli dei detenuti alla continuità del rapporto affettivo con il genitore e attraverso il progetto “Il carcere alla prova dei bambini e delle loro famiglie” è diventato uno strumento concreto sul territorio nazionale.

I percorsi di sostegno alla genitorialità attivi in Italia attualmente sono diversi e affrontano la tematica con modalità differenti, concentrando l’attenzione su aspetti diversi.

Dalla “stanza dell’affettività” allo “spazio giallo”, dalla ludoteca alle aree verdi, dal “gruppo di parola” alla “scuola dell’accoglienza”, ogni progetto proposto da varie Associazioni si impegna a preservare e garantire il diritto di essere padre e quello di essere figlio, a prescindere da tutto e tutti.

La Fondazione Vincenzo Casillo ha sostenuto di recente il progetto “Padri in pena”, strutturato e condotto da Simona D’Agostino, pedagogista, criminologa e presidente dell’Associazione Social Project, nato presso l’Istituto di Bellizzi Irpino (AV), replicato successivamente all’Istituto penitenziario Pasquale Mandato di Secondigliano (NA) e portato a maggio 2021, proprio grazie alla Fondazione, nella Casa Circondariale di Trani (BT).

Il progetto è stato articolato con gruppi di 15 padri detenuti incontrati ogni settimana per 3 mesi. Tra gli obiettivi principali: la cura delle relazioni familiari considerate parte integrante del percorso di trattamento della persona detenuta e la prevenzione di condotte devianti all’interno del tessuto familiare.

“Ognuno dei partecipanti ha ricevuto in regalo un quaderno con una penna, partendo dal presupposto di essere protagonisti attivi della costruzione del proprio percorso”, racconta la dottoressa D’Agostino.
“La metodologia utilizzata è stato l’approccio autobiografico, con l’intento di conoscere a fondo se stessi, lasciandone traccia, per riconoscere gli errori, rielaborarli e riformulare il modo di gestire la propria detenzione e la comunicazione con i propri figli. Attraverso la conoscenza del proprio percorso di vita si fornisce uno strumento per ripensare il proprio modo di essere padre. Scrivere della propria vita è una proposta formativa finalizzata all'attivazione o ri-attivazione di percorsi di crescita individuali e di gruppo, in virtù di un obiettivo trasformativo”.
La partecipazione è stata sincera e appassionata; nessun padre ha nutrito imbarazzo nell’ammettere di avere paura: del futuro, di non avere più diritti, di non poter incontrare la famiglia, anche a causa della pandemia da Covid-19 che ha portato necessariamente alla sospensione dei colloqui in presenza per lungo tempo.

Sono stati forniti loro strumenti di comunicazione utili ad approcciarsi al mondo interiore dei propri figli, condividendo stati d’animo e rafforzando il legame affettivo, pure da lontano. Hanno imparato a pensare prima di cominciare il colloquio o la video chiamata, cosa chiedere, come argomentare, come condividere, perché quel momento sia costruttivo, perché lasci nei propri figli la traccia di un cambiamento. Abbiamo chiesto ad alcuni detenuti che hanno preso parte al progetto quale fosse l’ultimo pensiero prima di cedere il passo al sonno. Tutti, indistintamente, hanno risposto: la famiglia.
A. immagina suo figlio da adulto dietro la scrivania di un’azienda.

M. immagina i suoi figli laureati, con un grande futuro.

E. racconta che la cosa che più gli manca quando pensa a sua figlia è la spensieratezza, prepararle da mangiare. Per lui essere padre significa aver ricevuto un’opportunità.

Quando uscirai definitivamente sarai di nuovo libero. Per te sarà come rinascere, sarà la tua seconda vita. Fai che io possa essere fiero di questo uomo nuovo.

Fallo per me, ma soprattutto per te”.
[dalla lettera di un figlio al padre carcerato a Le Novate]

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