Welfare
“Noi, ospiti delle comunità terapeutiche che potrebbero chiudere”
Sull'isola le strutture che si occupano di dipendenze e nell'ambito sociosanitario sono ormai al collasso, anche a causa del caro energia. Un dramma che potrebbe sfociare a fine anno nella chiusura di molte realtà anche consolidate nel territorio. Salvo che non intervenga subito la Regione. Vi raccontiamo il punto di vista degli ospiti di Casa Emmaus, storica associazione che opera a Iglesias e non solo
È difficile spiegare a una persona in difficoltà che l’assistenza che le stai garantendo da un periodo più o meno lungo, presto potrebbe interrompersi. È un’impresa molto ardua reggere lo sguardo di occhi che improvvisamente si fanno lucidi, facendo trasparire preoccupazione (se non disperazione), smarrimento, persino rabbia. Ma gli operatori della struttura maschile per adulti di Casa Emmaus, storica comunità terapeutica che opera a Iglesias e in tutto il territorio, hanno reputato necessario raccontare ai loro ospiti quanto sta accadendo alle strutture di tutta la Sardegna e del rischio che stanno correndo a causa dei mancati adeguamenti delle tariffe da parte della Regione. Dopo la pandemia, il caro energia ha costretto tutti a raschiare il classico fondo del barile. Arrivati a fine anno, le finanze sono allo stremo. Il fatto che ieri il presidente della Regione abbia varato la nuova Giunta e sostituito (tra gli altri) l’assessore della Sanità e Politiche sociali (a Mario Nieddu è subentrato Carlo Doria), non modifica di una virgola il quadro generale.
«Ci auguriamo – è l’auspicio della responsabile di Casa Emmaus, Giovanna Grillo – che il neo assessore intervenga subito, non solo sul fronte tariffe (ferme a undici anni fa) ma anche per i ristori delle spese da noi sostenute in due anni e mezzo di Covid, con i relativi dispositivi di protezione. Non si può pensare di cancellare tutto con un colpo di spugna, i nostri ospiti e le loro famiglie meritano attenzione e rispetto. E credo che lo meritino anche i nostri operatori, che continuano a credere in questa missione sociale».
A Casa Emmaus si preparano al peggio, dunque. E non è pessimismo. «Da lungo tempo non abbiamo interlocutori, e le promesse sinora si sono sprecate», commenta Grillo. «Ecco perché abbiamo chiesto agli ospiti della nostra struttura di provare a rispondere alle domande “Quali possono essere le conseguenze sulla tua vita se le comunità dovessero chiudere? In che cosa mi ha aiutato fino ad oggi la comunità?”. Loro, di tutta risposta, si sono aperti e ci hanno lasciato toccanti testimonianze che possono essere nient’altro che voce diretta del perché è necessario lottare per la sopravvivenza delle comunità terapeutiche».
Ve ne proponiamo alcune, ovviamente non svelando le generalità. Alessandro P. dice: «Sono un uomo di 47 anni che ha alle spalle un programma comunitario ed ora ne sto svolgendo un altro a Casa Emmaus, a Iglesias. È importantissimo per me, per recuperare la mia vita con l’aiuto di tutti gli operatori. Sarebbe una tragedia mettere in strada tutti questi ragazzi con tantissime problematiche di dipendenza. Dove andranno a finire? Vorrei dire una cosa a coloro che dovrebbero fare attenzione all’esistenza di queste strutture molto importanti: di non trascurare questi posti perché ci sono in gioco delle vite umane e ciò vi dovrebbe far riflettere e portare a sostenere le comunità perché sono indispensabili per tutti quei ragazzi che hanno problemi con la sostanza ma anche di natura psicologica».
Giovanni R. è molto diretto e franco: «Se le comunità dovessero chiudere, probabilmente mi ritroverei di nuovo in un bar a bere alcolici. Molta gente si troverebbe allo sbando a riperdersi nella droga. La comunità fino ad oggi mi ha aiutato ad uscire dal tunnel degli alcolici e mi ha rimesso in sesto». Roberto G. sottolinea: «Sono un tossicodipendente abituale dall’età di 15 anni, e ancora prima ho provato sporadicamente la sostanza. Da 15 anni in poi non ho più avuto nemmeno l’idea di provare anche solo ad avere una vita, ovvero mi sono sempre rifugiato nelle sostanze. Questo mi ha portato ad avere non pochi e marcati disagi che si son rivelati cardini della mia autodistruzione, che solo la vita e la guida protettiva di una struttura come questa in cui ora sono ospite può contrastare. Con la mia forza di volontà e la mia voglia di cambiare riuscirò a migliorare la mia vita, ma ho ancora bisogno di essere aiutato».
Ignazio V. viene da un lungo percorso: «Nel 2006 ho fatto l’ingresso nella mia prima comunità, avevo 27 anni e ho avuto un sostegno pari o forse maggiore rispetto alla mia famiglia. La comunità mi ha aiutato a reintegrarmi nella società; purtroppo ho avuto altre ricadute, dopo dieci anni, per questo mi ritrovo nuovamente qui. Se dovessero chiudere le comunità in Sardegna, sarebbe una catastrofe per le famiglie e per l’intera società. Ho fiducia nelle istituzioni e spero che questo non accada mai».
Efisio C.: «Se chiudono le comunità, molte persone rimarranno senza il dovuto aiuto. Sarebbe come chiudere gli ospedali. La comunità Emmaus mi ha aiutato a riprendere la mia vita in mano». E Graziano F. aggiunge: «Sarebbe ancora una volta un modo per colpire i più deboli. L’ennesima ingiustizia che vivrei sulla mia pelle. La comunità mi sta aiutando a salvarmi la vita. L’interruzione del mio percorso, in un futuro prossimo, sarebbe indubbiamente rischioso perché non mi sento ancora pronto per uscire e affrontare la vita con le difficoltà fuori dalla struttura. La comunità mi sta facendo diventare uomo, quello che non sono mai stato. Sto ricevendo l’aiuto per avere un rapporto vero con la mia famiglia. Casa Emmaus mi sta trasmettendo il senso di responsabilità che durante la mia tossicodipendenza ho perso. Questo posto m sta ridando la vita che merito, sto riscoprendo di valere molto di più di quanto io creda. Sono grato alla comunità».
L’educatrice Roberta Cabua spiega: «Questi sono solo pochi dei 38 ragazzi attualmente inseriti in percorso da noi, ma rispecchiano il pensiero che tutti loro hanno espresso quando hanno appreso la notizia. Noi operatori, ancora prima di pensare al rischio della perdita di un posto di lavoro, pensiamo alla perdita della possibilità di offrire cura, calore e accoglienza a chi ne ha bisogno; pensiamo alla negazione di offrire fiducia a chi non ne ha più da solo; pensiamo al non poter più essere specchi di vite che hanno bisogno di guardarsi da un’altra prospettiva. Da parte nostra, crediamo profondamente che anche solo correre il rischio di non avere più questa realtà a disposizione significherebbe togliere la possibilità a queste persone di riprendersi in mano la propria vita, di ridare significato alle esperienze passate, dare un nome alle difficoltà affrontate e apprendere strumenti necessari ad affrontare future problematiche con maggiore consapevolezza. Chiudere le strutture, toglierebbe loro queste possibilità e restituirebbe all’intera società e alle famiglie una serie di problemi che non sarebbero altrimenti affrontabili, dando spazio al degrado, all’illegalità e al disagio sociale. Mettere in disparte queste persone, che hanno invece diritto che venga restituita loro la dignità e che per una volta vengono “visti”, significa categorizzare, decidere chi merita e chi no, chi può e chi non può. La vita ci pone davanti a delle scelte. La nostra, dei ragazzi e di chi lavora con loro, è quella di lottare per una causa che implica cura».
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