Calabria
“Lento pede”, la ricerca che analizza la vita nelle aree interne
«Quelli che restano non sono disinteressati, apatici, rassegnati», dice la professoressa Sabina Licursi che insieme al professor Domenico Cersosimo ha curato la ricerca. «Nella loro scelta c’è il desiderio di abitare territori vivi che, benché rarefatti, continuano a produrre relazioni che hanno significato nella loro vita ed evocano un passato biografico, familiare, che ha senso. La richiesta che emerge da questi luoghi è quella di ri-territorializzare l’intervento pubblico con servizi su misura per rispondere ai bisogni di chi li abita»
di Lory Biondi
La città è l’unico luogo denso di vita ed opportunità? Se lo sono chiesto professori e ricercatori dell’Università della Calabria che hanno lavorato alla ricerca “Lento pede, Vivere nell’Italia estrema” e che sono arrivati alla conclusione che adattamento e sperimentazione sono due strade che possono rendere abitabili le aree interne e consentire una vita apprezzabile nonostante lo spopolamento.
La ricerca, a cura del professor Domenico Cersosimo e dalla professoressa Sabina Licursi, è nata dalla collaborazione tra la Scuola superiore di scienze delle amministrazioni pubbliche del Dipartimento di Scienze politiche e sociali dell’Unical e il Nucleo di valutazione e verifica degli investimenti pubblici della Regione Calabria. Nel biennio 2021-2022, un gruppo di 30 ricercatori, tra sociologi, politologi, economisti e giuristi, ha indagato le condizioni di vita nei 63 paesi lontani dai servizi di cittadinanza appartenenti alle quattro aree pilota calabresi della Snai – Strategia Nazionale per le Aree Interne. Si tratta di aggregazioni di comuni che attraversano la regione da nord a sud, comprendendo territori montani, collinari e costieri. 140 interviste sono state somministrate alla classe dirigente locale (sindaci, segretari comunali, medici di base, dirigenti scolastici); altre mille interviste hanno coinvolto genitori e figli che vivono nelle aree interne.
Cersosimo e Licursi individuano, nei luoghi rarefatti, un doppio movimento: il primo riguarda il disconoscimento, l’erosione della cittadinanza, l’indifferenza pubblica, la compressione di spazi e strumenti per esercitare la voce; il secondo è quello del possibile, dell’attenzione, dello sguardo partigiano, della semina utile, della valorizzazione della diversità, della convivenza delle differenze.
«L’etica della probabilità, ossia la linea interpretativa supportata dai numeri», commenta Licursi, «è quella che si vede di più in queste aree e racconta di territori che si spopolano, persone anziane in aumento, bassa natalità, contrazione dei servizi. L’altra linea è quella dell’etica della possibilità, un atteggiamento di speranza laica costruttiva, di speranza intransitiva, che indica la capacità di mantenersi positivi rispetto al futuro, nonostante i dati negativi».
La Calabria è l’Italia estrema per definizione. Regione limite, scrivono i professori, stabilmente nel fondo delle graduatorie europee delle dotazioni di capitale pubblico e degli indicatori economici e sociali. Un destino inscalfibile da ultima. La rappresentazione e l’autorappresentazione della Calabria come luogo ostile, montuoso, isolato, lontano, continuano, tutt’oggi, a connotare la percezione collettiva della regione. Non meno unilaterale e stereotipante è la rappresentazione di una Calabria “inizio del mondo”, del nome Italia, dell’eredità magnogreca, dei 700 chilometri di costa, della cipolla rossa e della ‘nduja. Due rappresentazioni che offuscano la Calabria ordinaria, quella della quotidianità, degli affanni, delle opportunità, delle partenze e della restanza. La Calabria ha, dunque, bisogno di altri sguardi, di altri racconti, per guardare e narrare la sua policentricità, i chiari e gli scuri. Se non si inverte lo sguardo, pare non possa esserci soluzione per le aree interne.
«Lento pede è il titolo individuato dall’editore Donzelli», afferma Licursi, «e rappresenta anche la postura che adottano i residenti di queste zone, che procedono in maniera riflessiva. Quelli che restano non sono disinteressati, apatici, rassegnati, ma nella loro scelta c’è il desiderio di abitare territori vivi che, benché rarefatti, continuano a produrre relazioni che hanno significato nella loro vita ed evocano un passato biografico, familiare, che ha senso. La richiesta che emerge da questi luoghi è quella di ri-territorializzare l’intervento pubblico con servizi su misura per rispondere ai bisogni di chi li abita».
Si legge nel libro che l’Italia è il Paese dei piccoli paesi. Quelli con meno di 2mila abitanti sono 3500, il 44% del totale. È anche a rischio desertificazione, soprattutto al Sud. Poche nascite, meno matrimoni e alta età degli sposi. In quattro famiglie su cinque sono scomparsi fratelli e sorelle e l’immigrazione non riuscirà a controbilanciare questi dati. L’Istat stima che, nel 2070, gli italiani saranno meno di 48 milioni, all’incirca 12 in meno di quelli odierni e gli abitanti del Mezzogiorno si prosciugheranno con più intensità che altrove. Nell’ultimo quarantennio si sono perse circa 14mila donne in età fertile. Una popolazione con questi numeri non potrà sopravvivere a lungo. Tra 58 anni, nel 2079, si verificherà l’anno zero popolazione nelle aree interne.
«La maggioranza dei genitori intervistati vuole restare, il 66%», sottolinea la professoressa Licursi, «e c’è che una quota di giovani che non vuole andare via. Chi resta lo fa soprattutto perché apprezza la qualità della vita, la sicurezza che dà la dimensione piccola e nota del paese, il basso costo della vita, il fatto di avere una casa di proprietà».
Nonostante lo spopolamento, la vita delle aree interne continua a connotarsi per intensità delle relazioni, dei legami interpersonali, della partecipazione associativa. Oltre un terzo dei genitori è coinvolto in gruppi e associazioni locali a sostegno delle tradizioni, e l’interesse per ciò che accade nel paese è molto alto. Come scrivono gli autori, per le aree non ancora al punto di non ritorno demografico, quelle con consistenza minima di abitanti aggregati in piccoli paesi e in località vicine, e dunque con una certa numerosità di famiglie con bambini, di lavoratori, oltre che di anziani, è possibile ripensare l’azione pubblica e tentare, anche in modo sperimentale, nuove forme di riabitare. Buone politiche da costruire per le persone e con le persone. Per i professori serve ascolto, negoziazione per co-progettare servizi e prestazioni che siano riconquista civile e di cittadinanza per persone che sono costrette ad un corpo a corpo quotidiano con un welfare asfittico, destrutturato, introvabile e con una mobilità negata.
Un cittadino che vive nella Sila e Presila, per arrivare in autobus nel capoluogo di provincia, dove si trova la maggior parte degli uffici pubblici sovra comunali, impiega in media 202 minuti, oltre 3 ore per meno di 100 chilometri. La media in minuti per raggiungere l’università più vicina varia da un minimo di 85 minuti ad un massimo di 171, costringendo spesso gli universitari di queste aree al ruolo di studenti fuori sede nella propria regione. Il tempo necessario per raggiungere in autobus l’aeroporto di Lamezia Terme dall’area Sila e Presila è in media 256 minuti, oltre quattro ore, molto di più del tempo di volo per sbarcare in una qualsiasi capitale europea.
E allora, si può ancora vivere in queste aree interne e a che condizioni? Solo progettando uno sviluppo di cui i residenti siano protagonisti e non destinatari si può provare a contrastare lo spopolamento assecondato, intenzionalmente o meno, da anni di politiche pubbliche “cieche ai luoghi”. È letteralmente vitale assumere l’etica delle opportunità, vedere ciò che è nascosto, le risorse latenti, i potenziali di innovazione, le esperienze di radicamento territoriale.
Per il professore di antropologia culturale dell’Università della Calabria, Fulvio Librandi, autore della postfazione di “Lento pede”, quello del margine è un tempo sospeso, liminare, in cui si appartiene né al mondo a quo, né ad un mondo a quem; si tratta di un tempo “non più e non ancora”. Il nostro sguardo, scrive Librandi, fatica a cogliere i processi di trasformazione di questi luoghi, la loro dimensione già diasporica, multisituata, iperconnessa; fatica a cogliere il potenziale del loro “non ancora”.
Sta facendo il giro del web una dichiarazione del cantautore cosentino Dario Brunori rilasciata a “Tintoria”, il podcast di Daniele Tinti e Stefano Rapone. «Io penso che la Calabria sia il futuro, mi sono tenuto un posto in prima fila in quello che verrà», ha dichiarato Brunori che vive a San Fili, paesino in provincia di Cosenza di 2500 abitanti, «perché è l’unico posto al mondo che resiste al capitalismo, ma non volendolo, è un’attitudine anticonsumistica, ma senza la volontà di protesta, proprio per una questione che comunque “ni sicca”, ti secca il consumismo. Io penso che sia il futuro perché vedo la saturazione del capitalismo».
Se una speranza del possibile, i segni di rinascita, il ripopolamento e l’ostinazione dei giovani e delle famiglie a restare saranno più forti della tragedia dell’estinzione demografica incombente, della scomparsa dei bambini, dell’indifferenza pubblica per comunità lontane, allora la Calabria non solo potrà avere un futuro, ma come predice Brunori, potrà esserlo, il futuro.
È scritto nel “non ancora”.
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