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L’antimafia sociale? Riparte dalla sete di verità dei più giovani

È grazie al lavoro di realtà come il Centro Studi “Rita e Paolo Borsellino” o di “Casa Memoria Felicia Impastato” che la memoria può dirsi viva e diventare patrimonio delle nuove generazioni. Importante però, come dice don Luigi Ciotti, recuperare il senso profondo delle parole

di Gilda Sciortino

 

Per capire concretamente cosa vuol dire oggi fare antimafia basterebbe guardare i ragazzi che ormai quasi quotidianamente varcano la soglia del Centro Studi e Ricerche “Paolo e Rita Borsellino”. Un luogo che fa memoria viva, forte del suo essere stato strappato al patrimonio di Totò Riina in quanto si trova nel complesso che lo ha ospitato durante la sua latitanza. Complesso in cui oggi ha sede anche l’Ordine dei Giornalisti di Sicilia. Beni confiscati alla mafia nei quali i ragazzi, i giovani, gli studenti hanno l’opportunità di non perdere pezzi importanti della nostra storia più recente.

È, infatti, proprio nell’educazione che il centro dedicato a Rita e Paolo
Borsellino ha individuato un fattore strategico di crescita civica, umana e culturale, indispensabile per il superamento della subcultura mafiosa. Un fare antimafia che coinvolge tutti, ma che ultimamente ha visto i movimenti contrapposti e non sempre univoci nella loro ricerca di verità

«Quando io parlo di antimafia» – afferma Vittorio Teresi, magistrato presidente del Centro Borsellino – «parlo di un sentimento individuale nell’essere cittadino, magistrato, poliziotto, giornalista, professionista in generale. Se, invece, mi devo riferire ai movimenti, parliamo ottimisticamente di gruppi strutturati he dovrebbero avere una base culturale, quella che dovrebbe curare la memoria operante che dovrebbe raccontare il passato dal quale trarre tutti gli insegnamenti necessari. Eppure non è così perché i movimenti antimafia oggi sono caratterizzati in tutto il mondo da infiltrazioni non solo culturali ma anche criminali e il termine stesso ha perso di attrattiva e significato. I casi Saguto e Montante ci dicono quanto il mito dell’antimafia sia stati inquinato imponendoci una revisione totale della necessità di opporci alle mafie e contrastarle. Un sentimento che deve rimanere individuale ma che si deve trasformare in qualcosa di culturale e diffuso. Per farlo è sempre necessario partire dai ragazzi, dai più giovani, i bambini, sfruttare la loro capacità di incuriosirsi e rispondere alla loro sete di conoscenza».

Lavoro che si fa costantemente il centro dove, per esempio, in occasione
della strage di via D’Amelio appena celebrata, 270 ragazzi hanno voluto
esserci per soddisfare tante curiosità
.

«Non erano studenti perché le scuole sono chiuse» – prosegue Teresi – «ma ragazzi che venivano da ogni parte della città e che, nonostante i 40 gradi all’ombra, sono rimasti con noi per tutto il giorno a giocare, leggere e incuriosirsi con i libri della Bibliolapa, disegnare all’aperto rendendo giustizia a un luogo che ha conosciuto morte e devastazione. Lo hanno trasformato in un luogo gioioso, vivace e anche di sviluppo culturale. Questo è fare antimafia».

Ragazzi, giovani che “contagiano” gli adulti. Dal 1992, anno delle stragi di
Capaci e via D’Amelio, quanto è rimasto della voglia di riscatto della gente?

«Il risveglio del ’92 è stato forte e coinvolgente» – dice ancora il presidente del Centro studi “Rita e Paolo Borsellino” – «ma di pochi perché le manifestazioni di ogni anniversario hanno animato la partecipazione iniziale che cavalcava l’onda emotiva, Poi, però, piano piano, quando il tutto avrebbe dovuto strutturarsi è scemato. Dobbiamo, quindi, creare curiosità e interesse verso la legalità, ma soprattutto la convenienza. I  beni confiscati e il loro utilizzo sono una strada, ma ci vuole saggezza amministrativa e politica, difficile da riscontrare in questo periodo».

Forse, quindi, ripartire rimettendo al loro posto le parole?

«La parola antimafia la metterei in quarantena permanente in quanto
abusata».– sostiene don Luigi Ciotti«Contiene tutto e il contrario di tutto e penalizza quello che facciamo ogni giorno. È diventato il cavallo di troia dietro al quale chiunque si nasconde. Così come un’altra parola va riveduta: legalità. Una bandiera che tutti rivendicano, dimenticandosi che è solo lo strumento per raggiungere un obiettivo e non può essere l’obiettivo. La risposta che dobbiamo dare è quella che contiene cultura, educazione, politiche sociali, lavoro, casa, famiglia. Strumenti da fornire al mondo giovanile perché, senza di essi, non hanno dove andare. Rimangono solo grandi parole, il cui valore va recuperato in fretta».

Termini contro i quali non si scontrano certo i più giovani. Come quelli a
cui Felicia Bartolotta, la mamma di Peppino Impastato, apriva le porte
della sua casa di Cinisi
. La sua eredità è cresciuta, si è
moltiplicata e oggi sono migliaia i ragazzi che vivono questo luogo attraverso
il racconto della vita di una donna che ha combattuto con e per suo
figlio
sino all’ultimo giorno della propria vita.

«Un grande lavoro che si alimenta attraverso l’impegno di tanti –
si inserisce Luisa Impastato, la nipote di Peppino –  e il risultato è il ritrovarsi insieme anche quanto è il momento di costruire percorsi grazie ai quali la memoria crea partecipazione e rivendicazione. Noi siamo convinti che fare antimafia significhi partire dal basso, aggregando anche e soprattutto i cittadini”.

Un’antimafia sociale e intersezionale quella che coinvolge proprio i più
giovani attraverso i movimenti che stanno costruendo nuovi percorsi di memoria
attiva attraverso momenti di riflessione e dibattito. Non prima, però, di superare le lotte “intestine” tra chi rivendica la propria bandierina su eredità che non sempre gli appartengono. Ci prova, per esempio, il coordinamento di associazioni che si sono ritrovate in occasione delle celebrazioni delle stragi di Capaci e via D’Amelio.

«Intersezionalità delle lotte vuol dire che le vertenze sociali sono convergenti, si toccano» – afferma Jamil El Sadi, portavoce del movimento “Our Voice” – «perché la mafia ormai da tempo è presente ovunque. Non possiamo prescindere dalle vite di Mauro Rostagno, Danilo Dolci e Peppino Impastato esempi illustri sulla base delle cui storie e dei rispettivi sacrifici abbiamo da tempo capito che le mafie sono sempre più unite. Oggi, poi, cavalcano le logiche di mercato alterano addirittura le borse. Da una parte servono le commemorazioni, dall’altra la cultura. “Our voice” ha dimostrato che la bellezza dei coordinamenti sta nell’unire tante posizioni. Ognuno porta la propria identità e dà vita a percorsi che, per esempio, in occasione dell’anniversario della strage di via D’Amelio ha portato in piazza millecinquecento persone, la maggior parte delle quali giovani. Già solo questo è un successo».