Carcere

“La fine del gioco” di Gianni Amelio torna dopo 55 anni al carcere minorile di Catanzaro

A più di mezzo secolo dalla messa in onda sul Canale 2 della Rai, fa ritorno all’interno dell’Istituto Penale Minorile di Catanzaro "Silvio Paternostro", "La fine del gioco", il film che segna l’esordio del regista calabrese Gianni Amelio. Una storia sulla fragilità di un ragazzo che, durante un viaggio in treno, racconta l'esperienza della detenzione a un giornalista interpretato da Ugo Gregoretti

di Gilda Sciortino

Sembra ieri quando Gianni Amelio esordiva nel mondo del cinema con una ricostruzione cinematografica “dal vero” di un reportage giornalistico sul disagio che sperimenta la difficile esperienza di vita di un dodicenne, orfano di padre, recluso in un istituto correzionale, e sui suoi complicati rapporti familiari. 

“La fine del gioco” è la pellicola, prodotta nel 1970,  girata in buona parte all’interno  dell’Istituto Penale Minorile di Catanzaro “Silvio Paternostro” e concessa da Rai Teche, che questa mattina sarà proiettata nello stesso istituto alla presenza dei giovani detenuti e di alcune delegazioni di studenti. 

Un’opera prima, per la Rai, appartenente all’archeologia del cinema in quanto a strumenti, primo su tutti quel bianco e nero che rimarca la drammaticità degli eventi. affermando il valore del rigore, ma non rispetto al tema e messaggio che lancia, quanto mai attuale e occasione per riflettere. Ecco anche perchè la scelta di  proiettarla proprio nel luogo che ne è stato l’ispiratore e dove tante storie di vita sofferte e combattute da sempre si animano.

«Gianni aveva circa 25 anni all’epoca», racconta Domenico Rafele, lo sceneggiatore, «e compì uno di questi miracoli che potevano accadere solo allora. Nel senso che, all’epoca, Rai 2 aveva un settore cosiddetto sperimentale che cercava proprio le novità. La collana che aveva creato si chiamava “Autori nuovi” e dava la possibilità di fare un film proprio ai più giovani che non avevano ancora fatto niente in questo mondo o che magari avevano prodotto un piccolo cortometraggio, ma anche a quelli che avevano scritto una sceneggiatura interessante. Ovviamente parliamo di piccoli film, della durata di un’ora e a costi bassissimi, ma sempre film erano. Gianni fu uno di quelli che approfittarono di questa opportunità. Basti pensare che in questa collana hanno debuttato tantissime persone, per esempio Giuseppe Bertolucci, poi diventati grandi registi. Gianni Amelio, molto probabilmente, è uno di quelli che ha avuto la carriera più prestigiosa, diventato uno dei maestri del cinema italiano. Tutto è cominciato proprio allora. La cosa ancora più bella è che, sia io che Gianni siamo originari di Catanzaro, e cominciare la nostra carriera raccontando uno spaccato della nostra terra ci ha sempre reso orgogliosi».

Un film, “La fine del gioco”, che arriva diretto al cuore. Ma perchè una storia che racconta l’esperienza del carcere?

Se si scorre bene tutta la filmografia di Gianni Amelio, si vede che in questo film c’è veramente tutto il suo cinema, c’è proprio la sua idea primordiale. È, infatti, molto simile al film che lo ha reso celebre, forse il suo più grande successo anche commerciale, “Il ladro di bambini”, che racconta la storia dei due poliziotti che fanno un viaggio per portare un ragazzino in carcere. C’è anche lì, da un lato, qualcuno che ha un potere, un poliziotto, mentre dall’altra una persona più debole, più fragile, cioè un bambino. Dall’incontro-scontro tra queste due figure un po’ primordiali, il potere, il padre, e il detenuto, il figlio, nasce la storia.

Forte anche il ritratto critico che l’opera di Gianni Amelio offre dei media e del potere che hanno nei confronti dei fatti quotidiani.

Certamente. C’è, infatti, questo giornalista, interpretato da Ugo Gregoretti, che intervista il ragazzino, cercando non tanto di cogliere la sua verità, ma di costruire una realtà che gli conviene, il ritratto di un giovane che sta in riformatorio. E lì c’è lo scontro tra questa immagine un po’ stereotipata, precostituita del giornalista, e quella del ragazzino, che a un certo punto si ribella e, quando il treno a un certo punto si ferma, apre la porta e va via. È del resto il cinema di Gianni Amelio, che vuole fare riflettere, che ci aiuta a guardarci dentro.

Un film che ha il primato di essere stato l’unico film mai girato a Catanzaro, il 90 per cento del quale su un treno, il resto nell’Ipm “Paolo Paternostro”, un tempo riformatorio

Ugo Gregoretti e Luigi Valentino

Un istituto che si apre al territorio e che oggi ospita la proiezione di un film precursore dei tempi.

«Un film del genere solleva molte riflessioni», afferma Francesco Pellegrino, direttore dal 2002 dell’Istituto penale minorile di Catanzaro, «è comunque un tuffo nel passato. Dico che solleva molte riflessioni soprattutto rispetto al fatto che, dopo cinquant’anni e anchedi più, il disagio tra i minori dell’epoca lo vivono anche i giovani di oggi. È chiaro che, rispetto ad allora, strutture come la nostra sono cambiate. I 36 posti che abbiamo a disposizione sono tutti occupati, ma da pochi ragazzi calabresi, che al momento sono soltanto sei. Oggi, infatti, abbiamo una presenza molto alta di minori stranieri, la maggior parte dei quali giungono da altri territori del nostro Paese, da istituti del nord e centro Italia che sono in sovraffollamento.

C’è qualcosa che accomuna i giovani che sono ospiti della vostra struttura?

I ragazzi oggi esplodono più di quanto lo facessimo noi quando eravamo giovani. Sono privi di regole, che noi cerchiamo di dare loro per aiutarli a crescere meglio, non certo per punirli. Una struttura come la nostra lo deve fare. E poi, la verità è che le vogliono, anche se tendono a infrangerle. Il film di Gianni Amelio è sicuramente duro e ci fa pensare a quel periodo, ma anche al fatto che il disagio degli adolescenti di allora non era diverso da quello che vivono i nostri ragazzi. Forse oggi è anche più forte. Il benessere avrebbe dovuto aiutare, invece ha solo creato ulteriori fratture. Se, poi, pensiamo che ci sono serie televisive, mi riferisco in particolare a “Mare fuori”, che hanno distorto la realtà degli Istituti penali minorili, ci rendiamo conto contro cosa lottiamo. Mi viene in mente un signore che, poco prima della pandemia, era estate, venne a trovarmi. Avrà avuto un’ottantina d’anni ed era con i nipoti, la figlia e il marito. Mi chiese il permesso di farsi una fotografia sulle scale, qua fuori dall’istituto. Gli dissi ovviamente di si, ma gli chiesi il perché. Ebbene, mi raccontò che era stato chiuso nel nostro istituto quando era riformatorio, ma fu proprio qui che capì di essersi salvato: “Ho fatto un corso per elettricista – mi raccontò – e sono andato in pensione da dirigente dell’Enel”. Mi emoziono anche solo a ricordare qul momento.

Con quali strumenti, quindi, si lavora per dare modelli e linee guida che aiutino i ragazzi a fare scelte lucide e autonome?

Noi lavoriamo molto sull’istruzione con i corsi scolastici, di alfabetizzazione per i ragazzi stranieri, ma molto anche sulla formazione e l’orientamento professionale. Tutto propedeutico all’attivazione di tirocini formativi nelle aziende del territorio. Tra un po’ ne partiranno due, per dei ragazzi stranieri, uno in un’officina meccanica, l’altro in una pizzeria. Entrambi hanno seguito un percorso formativo grazie a un progetto finanziato dalla Caritas, in collaborazione con l’Istituto Tecnico Scalfaro di Catanzaro. Un altro ragazzo è stato assunto e comincerà ai primi di marzo da MacDonald’s. Nel frattempo, manteniamo i contatti con tutti gli altri ragazzi omai liberi che si sono inseriti nel territorio dal punto di vista sociale e lavorativo e che ci vengono a raccontare della loro vita.

Dopo 55 anni torna metaforicamente la macchina da presa in carcere. Per lei un’esperienza nuova?

Nuova nel senso che non ero sul set, perché quando fu girato il film avevo sette anni, ma c’ero perchè mio padre, all’epoca, lavorava proprio qui come agente di custodia, oggi sarebbe di polizia penitenziaria, e mi portava sempre con sè. Praticamente sono cresciuto qui dentro. Forse mi voleva fare capire quanto fossi fortunato rispetto ai ragazzi che lui proteggeva. Una sorta di invito a seguire la strada giusta. Se oggi dirigo questo istituto, forse lo devo anche a lui, al suo esempio.

Un evento, quello organizzato dalla Fondazione Trame ETS con la collaborazione dell’Istituto Penitenziario Minorile, che segue un percorso che ha dato di grandi risultati

«Fa seguito al programma che portiamo avanti proprio all’Ipm “Silvio Paternostro”», spiega Nuccio Iovene, presidente di Fondazione Trame Ets, «dove abbiamo lavorato insieme a Fondazione Treccani Cultura. Un lavoro anche con i ragazzi che ci ha portato a riflettere sul fatto che il carcere non può essere un luogo nel quale vengono rinchiusi, lasciati fuori dalla vista della gente e abbandonati come se non esistesse il problema. Noi, invece, diciamo che i ragazzi che sono in istituto ci stanno a cuore, il loro destino ci sta a cuore. Combinazione vuole che Gianni Amelio, grande regista originario di Catanzaro che quest’anno ha fatto 80 anni e che si è sempre occupato di ragazzi, come suo primo film ha realizzato proprio questo all’interno di questo Ipm nel quale lavoriamo da tempo. Progetto realizzato insieme a Domenico Raffaele, anche lui originario di qui.  Vogliamo fare una riflessione su qual era la condizione dei minori in Calabria e al sud, così come quali erano le politiche per affrontare le cosiddette devianze dei giovani all’epoca e quali sono quelli attuali. Lo vogliamo fare con i protagonisti, gli stessi ragazzi ospiti dell’Istituto perchè sia un percorso e non una mera iniziativa che lascia il tempo che trova. Proseguiremo nelle prossime settimane con altri registi calabresi, per esempio Mimmo Calopresti, ma con tematiche e film, girati in Calabria che non riguardano solo la Calabria, che trattano la condizione delle marginalità giovanili. Incontri che intendono aprire l’istituto alla città per far rendere conto alle persone di qual è la situazione che si vive in realtà del genere e, contemporaneamente, far sentire ai ragazzi una vicinanza, un interesse, un volersi prendersi cura per quanto possibile della loro condizione»

Un’esperienza che, a distanza di 55 anni, emoziona soprattutto il protagonista di questa preziosa opera

«Andavo a scuola alla Vivaldi e avevo  12 anni  – racconta Luigi Valentino, il ragazzo scelto da Amelio per raccontare un mondo pieno di chiaroscuri – quando ho visto arrivare Gianni Amelio con la sua troupe. Eravamo tutti nel cortile a giocare come solitamente fanno i ragazzini. Quando, dopo un’oretta, stavo per andare via, sento la voce di Gianni che mi chiama e mi dice in dialetto calabrese: “No, aspetta, vieni qui. Dove vai?”.  Non capivo cosa volesse, ma poi si è presentato, mi ha raccontato tutta la storia e, da lì, è cominciata questa avventura. Ancora oggi non so perché abbia scelto me, forse perché ho il viso del classico meridionale, non saprei dire, forse perchè gli sono piaciuto mentre giocavo con gli altri al “gioco dello schiaffo”. Ricordate quanto era divertente? Chiaramente ha voluto conoscere i miei genitori che è stato molto bravo a convincere perchè, per loro, ero troppo piccolo per fare questa esperienza”.

Una vera e propria avventura per l’allora giovanissimo attore che, con l’incoscienza che appartiene alla fanciullezza, si è reso conto solo dopo di avere fatto parte di un momento storico per il cinema.

“In riformatorio abbiamo girato alcune scene, poi tutto sul treno, un viaggio sino a Roma e ritorno che abbiamo veramente fatto. Che emozione Ugo Gregoretti, nel film il giornalista che era venuto a prendere questo ragazzo per intervistarlo. Amelio e anche Rafele si preoccupavano sempre di come stessi, mi hanno coccolato dall’inizio alla fine.

vita a sud

Raccontare la storia di un ragazzo che veniva dal riformatorio cosa ha significato per lei?

Mi ha dato tanto umanamente facendomi riflettere su come e quanto i ragazzi sbagliavano e dovevano vivere la realtà del carcere. Per me è stata un’esperienza molto forte. Poi Gianni Amelio, a distanza di un anno e mezzo circa, mi ha richiamato per farmi partecipare con tre o quattro scene a “La Città del Sole”, la storia di Tommaso Campanella, dove io facevo la parte di un marinaio. Ho anche fatto l’ispettore antidroga in un altro film della “Cinesud” di Catanzaro, ma la mia strada è stata altra perché ho fatto l’operaio edile e anche il carpentiere. Negli ultimi 20 anni sono stato manutentore in una struttura, per anziani. Oggi sono pensionato e mi godo i miei ricordi.

Se volesse ricordare “La fine del gioco” attraverso le emozioni vissute sul set?

I più bei ricordi li ho quando andavamo a passeggiare a Roma, tra una ripresa e l’altra. Ci mettevamo a fischiettare un paio di canzoni come quelle che fanno da colonna sonora ai film western. Ogni tanto le sento ancora, ma non ricordo i titoli. Ricordo anche che mi diedero un accompagnatore che avrebbe dovuto portarmi in giro per la città. Alla fine ero io che accompagnavo lui perchè non sapeva come muoversi. Ero piccolo e tutto mi sembrava un gioco, ma ora che devo ripescare nella memoria, sinceramente sono molto emozionato. Io sento i brividi. Non arriva anche a voi?

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