Inclusione
Il cinema in carcere che dà forma all’anima
È nell’aula della vecchia biblioteca dell’ex ospedale psichiatrico della casa circondariale di Barcellona Pozzo di Gotto, in provincia di Messina, che ha preso vita il set cinematografico di “Dopo questo esilio”, scritto e diretto dal regista Salvo Presti. Un docufilm che, attraverso la catarsi dei ricordi di un gruppo di detenuti, ci fa scoprire l’umanità di chi ha commesso anche più sbagli, svelando la forza della speranza che offre l’occasione di nuove vite
Spesso si sottovaluta la potenza della memoria, quanto possa custodire ricordi che improvvisamente riaffiorano sottratti alla fluidità di un tempo, come quello che scorre lento soprattutto all’interno di una struttura penitenziaria. Ricordi riposti nei luoghi più segreti del proprio io, tra le pieghe di anime provate dalla vita. Un vero e proprio viaggio di emozioni quello che ci regala “Dopo questo esilio”, il docufilm che il regista Salvo Presti ha realizzato a conclusione di “Cinema forma dell’anima”, progetto didattico di educazione all’immagine che ha avuto come palcoscenico la casa circondariale di Barcellona Pozzo di Gotto (Me), ex ospedale psichiatrico giudiziario oggi area trattamentale per la tutela della salute mentale, diretta con uno sguardo che arriva lontano è Romina Taiani. Un lavoro a cura del Centro provinciale per l’istruzione degli adulti (Cpia-Miur) con il coinvolgimento di un gruppo di circa 40 detenuti italiani e stranieri, che ha già vinto il primo premio al Gran Prix 2023, 11th International Film Festival “Prison Movie”, festival che si svolge nel distretto carcerario di Olsztyn, in Polonia.
Consegnato al ritmo del tempo anche il set cinematografico: la vecchia scuola-biblioteca della struttura, un tempo psichiatrica, spazio quasi metafisico, denso di oggetti ormai desueti, di dolori e sorrisi perduti nel tempo.
Nei ricordi sono riposti i nostri segreti, l’attesa di esaudire i nostri desideri. La memoria protegge anche tutte le delusioni e i dolori della nostra anima
– Salvo Presti, regista
Protagonista di questo viaggio, le cui tappe sono costituite dai ricordi di infanzie, solitamente riposte nei bauli della memoria perché ingombranti, rispetto a un oggi frutto di percorsi tortuosi per nulla cercati, voluti, è Vito che, nel tempo della detenzione, ritrova in un angolo della memoria il ricordo di un “salvataggio” in mare, sottraendo una ragazza alle spire di un mare in tempesta e alla morte. Un salvataggio che, nella catarsi dei ricordi e nel suo disvelarsi, diventa “riparazione” di sé stesso, misteriosa protezione dalla giungla di male che avvolge la fragilità umana, da un cammino precario fatto di relazioni rischiose, in un territorio soffocato da meccanismi spietati di violenza per la sopravvivenza.
«È stato lo stesso Vito a offrirsi per questo docufilm» racconta il regista -. «Il progetto didattico “Cinema forma dell’anima” non era ancora nato, ma io stavo conducevo un lavoro tecnico sull’educazione all’immagine in carcere. Tenevo un piccolo cineforum, facevo analisi del film, lavorando attorno alla ferita, alla caduta attraverso la storia di questi uomini che, dietro a un crollo, un cedimento, portano addosso uno stigma. All’improvviso, uno di loro, appunto Vito, mi disse: «Professore, questo corso mi ha fatto venire in mente il ricordo che avevo rimosso di questo salvataggio». Aggiungendo che il carcere era stata la sua salvezza perché chissà da cosa lo aveva preservato. A quel punto si è aperta una finestra e ho cominciato a inanellare la storia».
Ed ecco che, così come per Vito, cominciano a riaffiorare in tutti loro ricordi, patrimonio di un’età come dell’innocenza, splendori e miserie dell’infanzia, con la musica di sottofondo come arte che supera le parole e scandisce fotografie ormai perdute, rotture esistenziali e tentativi di aggiustamenti.
«Ovviamente poi c’è la Sicilia», aggiunge il regista, «terra di abbandoni e desolazione, di violenze e sospensioni di solarità ronzanti, di modernità tradite e mal digerite. Restano i silenzi di angoli sperduti, periferie polverose, viscere rimosse, morti dimenticati che, però, in lotta contro l’oblio, possono anche divenire resilienze poetiche, scogli di senso nel mare tempestoso della banalità e delle brutture, liriche indicibili, lentezze controcorrente, ricerca delle origini. Diversi i piani simbolici, infatti quella ragazza salvata in una giornata d’estate lontana è diventata una donna, una restauratrice, scorrendo tra i frame del film, co-protagonista silenziosa. La trama inestricabile di sogni e “corrispondenze” sotterranee sfocia sulla ferita sul volto di un dipinto, dove lei potrà operare la riparazione di un mondo sommerso, forse un possibile segno di amore oltre la violenza».
Una sorta di seconda occasione, quella offerta da questo prezioso lavoro a chi, senza veli davanti alla cinepresa, ha deciso di aprire il lucchetto del cuore, illuminando la stanza coi colori dell’infanzia, per condividere quei momenti vissuti con la leggerezza e l’incoscienza dell’essere bambino. Un arcobaleno di colori che la vita pian piano ha provato a consegnare al bianco e nero, disegnando un futuro che, invece, si vuole nutrire di speranza. Luce che invade la stanza in cui le memorie prendono vita, scaldando i toni di un racconto che scorre lento come sa solo essere una giornata siciliana di piena estate dai colori accesi ma anche evanescenti, ovattati dal vento di scirocco che soffia ovunque. Folate spesso roventi che confondono le idee, facendo credere che mai si fermeranno, che tutto verrà arso, magari anche grazie agli incendi appiccati senza possibilità di ritorno. Non c’è futuro per la rigogliosa macchia mediterranea, non c’è speranza per chi crede che non ci siano seconde possibilità. Ma ci pensano le parole della colonna sonora del docufilm, “L’ora dell’amore” de ICamaleonti, che risuonano come eco nei viali della struttura penitenziaria, a dirci che non bisogna arrendersi: “L’orologio della piazza/Ha perso la speranza/Io no che non l’ho persa/io aspetto che ritorni/è l’ora dell’amore”.
«Grazie alle parole di questa canzone ricordo che sono stato messo al mondo grazie a mia madre. Vivo per lei, cosa molto grande e bella».
La famiglia, il luogo che conserva i nostri più dolci ricordi oppure quelli che segneranno ineluttabilmente una vita
«Momenti gioiosi come quelli quando ero bambino. Avevo 8 anni circa e ricordo che il sabato sera ci riunivamo, la mia famiglia e i cugini. Non vedevo l’ora perché andavano tutti in terrazza dove tiravamo fuori un vecchio proiettore per guardare insieme un film. Mangiavamo la focaccia, il gelato e non avevano pensieri».
Infanzie trascorse a contatto con la natura
«I miei primi ricordi d’infanzia li ho a cinque anni, quando ho aperto la gabbia in cui c’erano i conigli di mia nonna che sono scappati tutti. Ero contento perché giravano sull’erba. Poi, però, mia nonna è arrivata, ha preso un sacco e ha messo tutti i conigli a posto. Uno solo è mancato all’appello».
Poi c’è la Festa dei morti, il 2 novembre di ogni anno, durante il quale in Sicilia i defunti mandano in dono ai bambini una montagna di giocattoli. Come a volere dire che, anche se lontani e in un’altra dimensione, continuano a vegliare su di loro
«C’erano tutti i miei parenti, mio zio, mio cugino, mia madre, mentre mio padre no perché stava scontando una pena in carcere. Chi riceveva una bicicletta, chi una pistola giocattolo; io niente, mi sentivo messo da parte. «Perché – chiedevo a mia madre – solo io non ho ricevuto nulla? ». «Non ci sono bastati i soldi», rispose lei. Non ho detto più nulla, ho ringraziato lo stesso mio zio, ma ho pensato: «Tanto poi ci penserà papà».
Ricordi di infanzie già tribolate, dolorose e cariche di attesa. Emozioni che chiedono riscatto, nella speranza che qualcosa di più bello arriverà. E come in procinto di scrivere la letterina a Babbo Natale, nella quale elencare i desideri tenuti segreti per tutto l’anno, davanti alla cinepresa tutti loro raccontano parte della loro vita. Come se in quella terrazza ideale, nella quale fare accomodare la famiglia per il film del momento, potessero ritrovarsi tutti ad assistere alla visione di una nuova pellicola, la cui trama sa molto più di focolare domestico rispetto a un’esistenza di artifici e giochi di prestigio necessari per sopravvivere. Un nuovo ciack che riporta indietro la moviola e rimette in gioco tutti i colori dell’arcobaleno, tante quante le sfumature dell’anima.
In apertura e nell’articolo scene dal set di “Dopo questo esilio” (foto ufficio stampa della produzione)
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