Inclusione sociale

Il carcere che si apre a imprese e Terzo settore, una possibilità di riscatto per i detenuti

Alla Casa circondariale di Cagliari-Uta sono numerosi i progetti che consentono una formazione mirata all'occupazione una volta scontata la pena. Con la piena collaborazione del tribunale di sorveglianza del capoluogo isolano. La storia simbolica di Moustafa, un giovane senegalese che ha trovato lavoro a Tiscali

di Luigi Alfonso

Carceri sovraffollate e in gran parte fatiscenti, condizioni igieniche precarie, un elevato numero di detenuti (30-32%) con problemi di dipendenze e una larga percentuale con disagi psichiatrici, che andrebbero seguiti in strutture specializzate. Le falle del sistema penitenziario sono note e riguardano almeno l’80% degli istituti di pena italiani. La Sardegna non fa eccezione: l’ultimo caso (un giovane che da un mese fa lo sciopero della fame a Bancali, a una decina di chilometri da Sassari) richiamato dalla Garante dei detenuti della Sardegna, Irene Testa, è solo l’ultimo di una lunga serie. Eppure, non mancano alcuni lodevoli tentativi di garantire un minimo di dignità e offrire qualche speranza di recupero a coloro che hanno sbagliato e per questo stanno pagando con la privazione della libertà. È il caso della Casa circondariale di Cagliari-Uta, inaugurata nel novembre del 2014 quando fu chiuso definitivamente l’ottocentesco carcere di Buoncammino.

Il direttore Marco Porcu, pur dovendo fare i conti con la carenza di personale e risorse, da anni dialoga con le realtà locali del Terzo settore e con le imprese. Da un paio d’anni a questa parte, inoltre, ha trovato sponda nel Tribunale di sorveglianza di Cagliari. Così, attraverso il pieno coinvolgimento di organizzazioni del Terzo settore (tra le più attive citiamo la Caritas diocesana, la fondazione Domus de Luna, le cooperative sociali La Collina ed Elan), si stanno offrendo opportunità di reinserimento sociale a decine di detenuti tra i 760 presenti a Uta.

«Non finirò mai di ringraziare quanti si prodigano per aiutarci in questo percorso, con progettazioni di alto profilo», ha sottolineato per l’ennesima volta il direttore Porcu durante i recenti festeggiamenti per il ventennale di Domus de Luna. «D’intesa con le istituzioni preposte, un certo numero di detenuti sta svolgendo lavori all’esterno, per esempio al tribunale di Cagliari, all’Oasi del Cervo e della Luna (vedi foto d’apertura) oppure presso alcune aziende private (una ventina di persone, ndr). Altri stanno partecipando a corsi di formazione professionale che sono propedeutici per impieghi mirati. Nei prossimi mesi, inoltre, sarà avviato un pastificio all’interno della nostra struttura, che consentirà di produrre e vendere una serie di prodotti di qualità, creando alcuni posti di lavoro».

Marco Porcu (a sinistra) e Ugo Bressanello al ventennale di Domus de Luna

Andare oltre i consueti progetti si può. «La missione di un’istituzione giudiziaria è quella di dare risposte efficaci nel più breve tempo possibile», ricorda la presidente del Tribunale di sorveglianza di Cagliari, Maria Cristina Ornano, la quale è profondamente convinta della bontà dei percorsi di formazione per i detenuti. «Noi mettiamo la persona al centro di tutto, dando attuazione al principio costituzionale per cui la pena tende alla rieducazione del condannato. Dobbiamo portarlo a comprendere la portata del reato e supportarlo nel percorso di reinserimento nel tessuto sociale. La maggior parte delle persone che si imbattono nel penale, arrivano da condizioni di grave disagio. La consapevolezza aiuta a non cadere nella recidiva, ma anche a riconoscere le proprie fragilità e a comprendere i motivi per cui ha commesso il reato. Se non si fa questo percorso di crescita e maturazione personale, il rischio di recidiva è elevato. Oltre al necessario percorso con gli psicologi e gli educatori del carcere, occorre mettere il detenuto nelle condizioni di fruire dei diritti di cui talvolta è stato privato. Merita una seconda chance, che in certi casi è pure la prima perché magari non ne ha mai avute. A volte si tratta solo di acquisire le regole di convivenza civile e condivisione sociale. Se ci sono gli elementi (per esempio, una famiglia supportiva e un lavoro che lo attende), può bastare un’esperienza di volontariato. Ma ci sono casi difficilissimi, in cui queste persone non hanno neppure un luogo in cui andare o comunque vivono in condizioni di estrema povertà. In alcuni casi, siamo costretti a tenere in carcere detenuti a fine pena che non hanno una soluzione abitativa. Quello dell’abitazione è diventato un problema molto serio».

Maria Cristina Ornano, presidente del Tribunale di sorveglianza

La deprivazione sociale è uno degli ostacoli maggiori che si incontrano nel reinserimento nella comunità civile. «Da qui la necessità di collaborare con le realtà più strutturate e propositive del Terzo settore, che portano un grande e insostituibile contributo di idee», sottolinea la presidente Ornano. «Ma occorre anche collaborare con le altre istituzioni. Nel mio piccolo, negli ultimi due anni, ho cercato nuovo personale amministrativo per dar gambe al lavoro negli uffici. Utilizzando un finanziamento della Regione Sardegna e attraverso la collaborazione della comunità La Collina di Serdiana, abbiamo avviato il progetto “Cartella informatica del detenuto”, che ci consente di informatizzare la storia di ogni detenuto. Sinora le informazioni si disperdevano e richiedevano archivi cartacei enormi. Da quest’anno avremo tutti i procedimenti del tribunale racchiusi nelle cartelle digitali. È una piccola sperimentazione che va verso l’efficienza amministrativa, ma che ha pure una funzione pedagogica perché aiuta il detenuto a superare lo stigma sociale».

Da febbraio 2025, cinque persone in esecuzione penale lavorano all’interno del tribunale di Cagliari in servizi di facchinaggio e archivistica di base, con la collaborazione degli operatori dell’Archivio di Stato, di Domus de Luna e degli uffici giudiziari. «Con la Casa circondariale di Uta mi piacerebbe programmare un ulteriore progetto di organizzazione dell’archivio digitale», spiega Ornano. «Più in generale, stiamo cercando di avviare una differente formazione all’interno del penitenziario, che tenga conto delle reali esigenze del mercato del lavoro all’esterno della struttura: è inutile fare un corso per 50 parrucchieri se poi, una volta scontata la pena, soltanto uno o due di loro troveranno lavoro in quel settore. L’informatica, invece, è un settore che dà prospettive interessanti. Oggi, gran parte del lavoro si riflette all’interno dello stesso carcere: cucina, magazzino, orto. Lavori scarsamente professionalizzanti rispetto alle esperienze che si possono fare alle dipendenze di un datore privato».

È il caso di Moustafa (il nome è di fantasia e alcuni particolari sono omessi per tutelare la privacy dei suoi figli minori), che oggi lavora a Tiscali. Ha 37 anni e proviene dal Senegal. «Sono nato a Dakar, dove ho studiato all’università», racconta. «Per due anni ho frequentato il corso di laurea in Letteratura, poi mi sono dedicato a un corso di formazione per meccanico tornitore, dove mi sono classificato primo. Ho lavorato in una grande fabbrica di cemento in Senegal ma, quando hanno fatto una diminuzione del personale, ho deciso di studiare in Europa. Ho trascorso alcuni mesi in Francia, non mi sono trovato bene, così ho preferito venire in Italia. In Sardegna ho ritrovato i valori e il modo di socializzare tipici della mia terra: qui la gente si preoccupa di me, non mi sento solo».

Moustafa nella sede di Tiscali, a Cagliari

Tutto sembrava andare nel migliore dei modi, ma qualcosa all’improvviso ha cambiato il corso della sua vita. «Sin dal mio arrivo in Italia, cioè dal 2008, ho sempre lavorato. A volte sono stato sfruttato, sono arrivato a sgobbare 16 ore al giorno. Uscivo di casa prestissimo e rientravo la notte, quando tutti erano già addormentati. Non era una vita facile. A Cagliari ho conosciuto la donna con cui ho messo al mondo due figli. Purtroppo, non stiamo più insieme. Dopo la separazione, c’è stato un periodo di crisi: avrei dovuto chiedere aiuto ma non l’ho fatto. Ho commesso un reato e sono stato condannato a cinque anni di reclusione. Sono finito in carcere a Uta. Quello trascorso lì è stato un periodo positivo, anche se può sembrare paradossale, perché ho avuto il tempo di riflettere e riprendere il mio cammino».

«Dopo due anni hanno capito che ero una brava persona, un buon lavoratore, non facevo uso di droghe e non davo fastidio a nessuno, così ho potuto fare un corso di formazione per rigenerare i modem: era promosso dal ministero di Giustizia, attraverso la legge Cartabia. Il personale di Tiscali ha fatto un colloquio a una quarantina di noi che avevano una buona condotta; ne sono stati scelti otto, tra cui me. Dopo un mese, abbiamo conseguito il diploma e Tiscali ci ha assunti tutti per sei mesi e ad alcuni di noi, me compreso, ha offerto il rinnovo contrattuale».

Moustafa al desk nel suo posto di lavoro

Moustafa ha conosciuto anche l’altra faccia della medaglia. «C’è molto sfruttamento anche in Italia, i lavoratori extracomunitari spesso sono pagati bene ma costretti a fare il doppio dell’orario. Ho avuto un brutto infortunio sul lavoro ma ho dovuto mentire per non perdere il posto. Si parla tanto della violenza sulle donne, ma ci sono anche questi tipi di violenza che si basa sempre sulla paura di denunciare: devi produrre testimonianze e dimostrare ciò che dici, rischi di perdere tutto. Così ho continuato a lavorare, stringendo i denti. Ancora oggi uso un tutore. Ho fatto tutti gli accertamenti in ospedale: sto aspettando che mi chiamino per l’intervento chirurgico. Spero che mi riconoscano il danno biologico. Noi senegalesi siamo privilegiati rispetto a tantissimi migranti di altri Paesi, perché il nostro governo ci mette nelle condizioni di studiare; da noi non ci sono guerre, siamo nelle condizioni di muoverci facendo una scelta consapevole. Pur essendo un Paese africano, vi sono tante etnie. Nella capitale non ci sono discriminazioni, la vita è molto simile a quella delle città europee. Non mi sono pentito di essere venuto in Europa, ogni anno vado in Senegal a trovare i miei familiari e parenti. Il mio futuro? Non penso a farmi una nuova famiglia, il mio pensiero va solo ai miei figli e al lavoro».

«Sono grato a tante persone: ai responsabili di Tiscali che mi hanno assunto quando ancora stavo in carcere, all’arcivescovo di Cagliari Giuseppe Baturi, all’avvocato Valeria Pau, il mio legale di fiducia che per me è come una sorella, al cappellano Padre Gabriele e Silvia Piras del gruppo sinodale; e poi, alla presidente Ornano, alla psicologa Alessandra Deriu e agli educatori del carcere: tutti mi hanno fatto capire che chiunque può sbagliare, si sconta la pena e si va avanti. Non mi hanno fatto sentire un criminale. Fondamentale, poi, la vicinanza di amici stretti come Davide Siddi, Andrea Muscas e il mio connazionale Cher. Un pensiero ai detenuti di Uta: se altre imprese seguiranno l’esempio di quella in cui lavoro io, aiuteranno tante persone a rimettersi in gioco. Hanno sbagliato ma stanno pagando: bisogna offrire loro una nuova possibilità. Dobbiamo riconoscere gli errori commessi ed essere pronti a ripartire. Ci sono tanti detenuti che hanno una grande voglia di lavorare e mantenersi onestamente. Io mi sono trovato bene perché tutti gli operatori, compresi gli agenti di polizia penitenziaria, con me si sono comportati bene. Non mancano le difficoltà, ovviamente: per un giovane non è facile trovare casa, figurarsi per chi esce dal carcere. La vita mi ha insegnato tante cose, sono stato messo nelle condizioni di comprendere i miei errori. Non mi considero un santo, però il carcere mi ha fatto diventare un vero uomo».

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