Caso Sardegna: sovraffollamento ma meno recidive con il teatro

La Fondazione di Sardegna co-finanzia due progetti nazionali, portati dalla compagnia teatrale Cada Die all'interno della Casa circondariale di Uta, a due passi da Cagliari. Detenuti veri protagonisti e non semplici comparse. Ma resta il problema di fondo: buona parte delle persone rinchiuse negli istituti di pena giungono da fuori e, paradossalmente, le colonie penali funzionano a mezzo regime

di Luigi Alfonso

Il 70 per cento delle persone ospiti di un istituto di pena cade in recidiva, una volta lasciato il carcere. Questo dato ha rafforzato la riflessione della compagnia “Cada Die Teatro” di Cagliari, una delle più importanti della Sardegna, che partecipa a due progetti mirati nel carcere di Uta (Cagliari). «Non tutti hanno accesso a strutture alternative, come la comunità La Collina di Serdiana guidata da don Ettore Cannavera», sottolinea Pierpaolo Piludu, cofondatore di Cada Die insieme ad Alessandro Mascia. «Non è certo un caso se lì si registrano recidive molto più basse, intorno al 4-5%. La nostra scommessa è far sì che il teatro diventi uno strumento di emancipazione per uomini e donne che, al di là delle scelte fatte in passato, sono alla ricerca di un’opportunità di rinascita. Ecco perché stiamo portando avanti due progetti finanziati dalla Fondazione di Sardegna e sostenuti da Cpia Karalis 1 e Ufficio di esecuzione penale esterna – Uepe: “Per Aspera ad Astra – Come riconfigurare il carcere attraverso la cultura e la bellezza” (dove protagonisti sono i detenuti del carcere di Uta in un programma nazionale che vede impegnate 14 compagnie teatrali con altrettante Fondazioni bancarie e istituti di pena) e “Teatro oltre le sbarre” (riservato ad allievi attori in regime di semilibertà). Il sistema carcerario non solo è dispendioso, ma in tutti questi anni non ha neppure funzionato. Costa molto e non permette ai detenuti di uscire migliori rispetto a quando sono entrati la prima volta».

«I progetti culturali lasciano sempre qualcosa, per lo meno la sensazione di far parte di un percorso con regole differenti», è il commento di Alessandro Mascia. «E questo vale per il carcere ma anche per certi quartieri e certi tipi di strutture sanitarie, dove ci rendiamo conto che ciò che facciamo vale sino a un certo punto, poi non ha più effetto. In carcere questo aspetto è ancor più marcato: fare teatro in una struttura dove ci sono pesanti limitazioni nella libertà di pensiero, spazio e movimento, a volte ti sembra di sbattere contro un muro e tornare indietro. Occorrerebbe un intervento più strutturato e organico, mentre oggi ci sono progetti parcellizzati dove ognuno va per conto suo.

«MI ha molto colpita vedere i risultati di questo progetto attraverso la rappresentazione dello spettacolo portato in scena nei giorni scorsi alla Casa circondariale di Uta», sottolinea Maria Grazia Caligaris, da tanti anni impegnata delle strutture detentive isolane con l’associazione “Socialismo diritti riforme”. «In quella occasione ho visto soltanto degli attori, e non detenuti a cui è stato assegnato un ruolo per cui fingono di fare gli attori. Hanno assaporato la vera libertà: essere se stessi all’interno di un contesto in cui sviluppano un ruolo che è riconosciuto. Per quanto sembri paradossale, il problema non è costituito dai detenuti in condizioni di alta sicurezza, bensì dagli altri, perché i primi hanno la consapevolezza di aver commesso reati di una certa gravità, quindi hanno sviluppato la capacità di guardare a se stessi. In carcere abbiamo un 50 per cento di persone con problemi psichiatrici, incompatibili con la permanenza in queste strutture. Abbiamo tante persone in doppia diagnosi, cioè tossicodipendenti con problemi di natura psichiatrica. Per non parlare della povertà culturale, umana e sociale che deriva dall’esterno

Caligaris rimarca anche un altro aspetto: «In Sardegna abbiamo un sovraffollamento nascosto nelle carceri: si dice che ci siano oltre 2.600 posti disponibili in queste strutture, ma solo il 49 per cento dei detenuti è composto da sardi, in barba alla territorialità della pena. E nei seimila ettari a disposizione nelle nostre colonie penali ci sono soltanto 298 detenuti sui 598 che si potrebbero accogliere. Una vergogna nazionale. Se lo Stato ritiene inutili le colonie, restituisca le proprietà terriere alle amministrazioni comunali e si destinino alle cooperative sociali. Il caso Sardegna fa discutere anche perché le Case circondariali di Oristano e Tempio Pausania sono state trasformate in Case di reclusione, dove ci sono soltanto persone detenute in alta sicurezza. Tutto ciò comporta costi altissimi e l’isolamento affettivo di questa gente. Sono perciò d’accordo con gli operatori di Cada Die: dobbiamo unire le forze e lavorare insieme, possibilmente coinvolgendo di più le sezioni femminili. Perché il tempo in carcere non sia inutile ma fruttuoso, si ha bisogno di iniziative culturali di un certo spessore. Diamo un senso alla vita di queste persone. Ci sarà pure un motivo se nelle carceri italiane siamo arrivati a contare 82 suicidi nel corso del 2022».

Giovanni Malagutti, psicoterapeuta e presidente della Fondazione “Malagutti” di Curtatone, ricorda che «il carcere è un luogo di sconto di pena sociale, ma per parlare serenamente di un problema così complesso, ciascuno di noi dovrebbe riflettere sulla capacità di poter gestire il nostro sentimento di vendetta. Occorre un sistema differente, non c’è dubbio, e servono le proposte giuste, che richiedono sacrificio e dedizione. Abbiamo tanto bisogno di investire nei figli e nelle famiglie dei detenuti, in una società che tenga conto che l’istruzione, la cultura, l’arte e la conoscenza siano elementi importanti per venirne fuori».

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