Cultura

Virzì: chi ha paura della follia?

“La pazza Gioia”, l’ultimo lavoro del regista, accolto con applausi trionfali alla proiezione al Festival di Cannes, in gara nella Quinzaine des Réalisateurs, si basa sulla storia di due pazienti psichiatriche che si ritrovano a scappare insieme dalla struttura clinica che le ospita

di Monica Straniero

In attesa di partire per gli Stati Uniti a girare il suo prossimo film: The Leisure Seeker con Donald Sutherland e Helen Mirren, Paolo Virzì decide di correre una serie di rischi prendendo di petto il pregiudizio nei confronti dei cosiddetti malati mentali.

“La pazza Gioia”, accolto con applausi trionfali alla proiezione al Festival di Cannes, in gara nella Quinzaine des Réalisateurs, si basa sulla storia di due pazienti psichiatriche che si ritrovano a scappare insieme dalla struttura clinica che le ospita. Beatrice, Valeria Bruni Tedeschi è una mitomane, a suo dire in intimità con i potenti della Terra. Donatella, Micaela Ramazzotti, è una donna silenziosa e depressa che sembra custodire un tragico segreto.

Paolo Virzì riesce a mantenere per tutto il film un equilibrio tra il dramma e la commedia su una materia scivolosa, fatta invece di squilibri. “Non volevo fare un documentario di denuncia ma semmai raccontare la voglia di libertà di due donne a cui la vita ha già inflitto tante ferite. La loro è una fuga dalle regole, dalle costrizioni della cura ma soprattutto dalla follia della normalità”, racconta il regista livornese nell’incontro con i giornalisti.

“La pazza gioia”, che fa di tutto per evitare luoghi comuni e semplificazioni, diventa così un road movie nel mondo della salute mentale in Italia, tra cliniche private e pubbliche. Tra queste la virtuosa comunità psicoterapeutica ad alta intensità di cura tra le colline pistoiesi, dove Beatrice e Donatella sono sottoposte a misure di sicurezza. “Villa Biondi è un’invenzione, dice Virzì, ma qui abbiamo messo insieme elementi che avevamo osservato dal vero, nelle situazioni cliniche più disparate. Per realizzare il film, io e Francesca Archibugi, che con me ha scritto la sceneggiatura, abbiamo visitato luoghi molto accoglienti e belli, se così si può dire, dove lavorano medici, psichiatri, psicoterapeutici, paramedici, volontari, motivati e appassionati, spesso a dispetto di una gravissima carenza di strutture e di organici adeguati. Certo abbiamo visto anche posti sconsolanti, dove vengono custoditi in modo sbrigativo, sedati dai farmaci a volte contenuti da fasce e lacci, persone che le istituzioni, i giudici, i servizi sociali hanno sancito come soggetti “socialmente pericolosi”. Il regista si riferisce agli inferni dimenticati degli OPG, gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari. Dopo anni di sentenze della Corte Costituzionale, dibattiti e battaglie civili, la legge n. 81 del 2014 ha ordinato la chiusura dei “manicomi criminali italiani”. Eppure ad oggi solo una parte degli “internati” ha trovato accoglienza in strutture alternative alla segregazione. Ma le Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems), strutture sanitarie con pochi posti letto (al massimo 20), senza sbarre e senza agenti di polizia, nate in sostituzione degli OPG, sono davvero la svolta?


Il lavoro di Virzì ci sfida: vuole che prendiamo seriamente in considerazione i suoi personaggi, due donne sole, stigmatizzate, condannate e recluse, ma allo stesso tempo vuole farci vedere che esistono tracce di felicità e bellezza, di eccitazione vitale, anche nel momento dell’internamento. “I film possono essere una terapia. Non aiutano a guarire, ma almeno a sopportare meglio le difficoltà della vita, specie se vanno a scovare la commedia proprio nel cuore del dramma e della tragedia”.

Eccezionali anche le interpretazioni delle due protagoniste. Micaela Ramazzotti per il suo ruolo di Donatella, personaggio borderline affetta da una depressione grave, con tentativi di suicidio, ha voluto capire meglio quale fosse la situazione attuale. «Ho visitato varie strutture a Roma, realtà anche molto diverse. Luoghi difficili come il reparto di psichiatria del Sant’Andrea, o del San Filippo Neri, dove nonostante i medici fossero disponibili, ti senti chiuso tra quattro mura. Ma poi sono andata in posti come la Maieusis di

Capena, alle porte di Roma, una comunità più simile a quella che raccontiamo in La pazza gioia. Una villa in campagna, con l’orto, i murales coloratissimi, dove ai pazienti che in genere hanno disturbi molto seri si fanno terapie riabilitative, si insegna la tecnica per fare mosaici di ceramica, le decorazioni per le case e le ville della zona, con un progetto che possa poi offrire una qualche prospettiva oltre la degenza».

Valeria Bruni Tedeschi ha invece pensato alla protagonista dell'opera di Tennessee Williams, Un tram che si chiama Desiderio, Blanche Dubois, “per il suo modo di proteggersi dal dolore con la follia. «Non mi sento pazza ma mi sento familiare con le persone definite pazze». Siamo rinchiusi, sembra infatti dire il personaggio di Beatrice, in una forma ipocrita e falsa, la follia è una specie di condizione liberatoria perché il folle può guardare con autenticità alla vita. Accanto alle due attrici, nel cast anche pazienti vere del Dipartimento di Salute Mentale di Pistoia.

Quindi si può sorridere o addirittura ridere raccontando il dolore? “Speriamo di sì, perché mi è sembrato l’unico modo che avevo a disposizione per avvicinarmi ad un mistero, quello della follia, altrimenti impenetrabile. La malattia mentale fa paura, perché oscurata dal diffuso e radicato timore che non ci possa essere via d’uscita. Eppure il disagio mentale riguarda tutti, nessuno escluso”, conclude Paolo Virzì.


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