Salute
Violenza in psichiatria, riaprire i manicomi non è la soluzione
Secondo lo psichiatra Vito D'Anza, i comportamenti violenti da parte delle persone con disturbi mentali si possono ridurre attraverso una reale applicazione della riforma della salute mentale legata alla Legge 180, tramite un approccio che non neghi l'utilizzo dei farmaci, ma si componga di tanti altri elementi, come il dialogo, l'ascolto e la creazione di un rapporto di fiducia tra curante e curato. Per far questo, però, servono le risorse, che al momento scarseggiano
«Non ero il medico di Gianluca Paul Seung, ma l’ho incontrato a molti convegni e sporadicamente è venuto a trovarmi a Montecatini; l’ultima volta che l’ho visto, quattro o cinque anni fa, gli ho detto che aveva assolutamente bisogno di curarsi, perché non stava bene. Non mi aspettavo, però, questo tipo di violenza». Sono questi i ricordi di Vito D’Anza, direttore del dipartimento di salute mentale dell'ospedale di Pescia, in provincia di Pistoia, sull’uomo che avrebbe aggredito la psichiatra Barbara Capovani fuori dall’ospedale di Pisa, causandone la morte. La vicenda, tuttavia, potrebbe essere sintomo di un malessere più profondo del mondo della psichiatria, che trova le sue radici nel tradimento della riforma legata al nome di Franco Basaglia.
Dottore, episodi di questo tipo possono aumentare lo stigma legato alla malattia mentale?
Sicuramente. E in questa fase il problema più grosso è che questo contribuisce a dare un colpo alla riforma psichiatrica italiana. Ho visto dal giorno dopo costituirsi delle chat riservate a psichiatri e a specializzandi in psichiatria in cui il leitmotiv è, velatamente o meno, la riapertura dei manicomi, con centinaia di iscritti. Questa vicenda è drammatica, perché in un mondo ideale episodi del genere non dovrebbero succedere; nel mondo reale, tuttavia, succedono e probabilmente succederanno di nuovo in futuro. Anche quando erano in auge i manicomi e gli Ospedali psichiatrici giudiziari – Opg, fatti del genere accadevano: solitamente le persone in queste strutture finivano dopo aver commesso reati, non prima. Ora, però, c’è una fame di ritorno ai manicomi; oggi potremmo affermare che la riforma è completamente bloccata – per non dire che è fallita – agli occhi di tante persone. L’opinione pubblica va in tutt’altra direzione rispetto alla 180.
Anche quella degli psichiatri?
Soprattutto quella degli psichiatri. Negli ultimi anni di fatti così tragici non ce n’è stato solo uno, ma nemmeno moltissimi. Anche in pronto soccorso c’è un alto tasso di aggressioni agli operatori. Qual è la risposta, chiudere il pronto soccorso? In psichiatria, però, c’è sempre il tema della follia, della paura di ciò che non conosciamo, di quello che non riusciamo ancora a capire e ad afferrare. Il vero problema è che ci stiamo avviando verso una china dalla quale non sarà possibile risalire o, almeno, non sarà più possibile risalire applicando la riforma per come la conosciamo. Questo modo di vedere la salute mentale sta dilagando: c’è gente incolta e ignorante che imputa quello che è successo a Pisa a quella che loro chiamano «antipsichiatria», dicendo che ci sarebbero degli psichiatri troppo accondiscendenti con i pazienti.
Ma non è così.
Probabilmente si tratta di un concetto che noi che da 30 o 40 anni lavoriamo nel contesto della riforma non abbiamo ribadito con abbastanza forza in passato. Per loro, se non sei d’accordo che il farmaco sia l’unica risposta alla malattia mentale allora sei un «antipsichiatra». Il punto, invece, è un altro: esiste un modo di fare psichiatria, che è quello della riforma, in cui è contemplato il farmaco, ma ci sono anche tanti altri elementi, legati a una situazione più relazionale, umana e sociale. Di questo, ormai, si stanno perdendo le tracce.
All’indomani dei tragici fatti di Pisa, tre rappresentanti della Società italiana di psichiatria hanno scritto una lettera in cui denunciano che il 34% delle aggressioni avviene nell’ambito della salute mentale e il 20% in pronto soccorso. Come si può rendere il lavoro degli psichiatri e degli altri operatori più sicuro?
Le persone devono essere ascoltate, innanzitutto, accolte, bisogna instaurare un rapporto di fiducia tra chi sta male e chi è deputato alla cura di questa sofferenza. Invece, più si va avanti con gli anni più tutto questo viene ridotto: si mettono insieme i sintomi, si fa una diagnosi, si dà un farmaco e se in questo modo la sofferenza non diminuisce è colpa del paziente. In una situazione di questo genere gli episodi come quello accaduto a Pisa sono destinati a crescere e la risposta non è riaprire i manicomi, strutture in cui il soggetto non esiste più. Queste istituzioni non eliminano le aggressioni, perché sono ineliminabili; le violenze, semplicemente, accadevano prima che la persona entrasse negli ospedali psichiatrici o negli Opg. Com’è possibile ridurre l’aggressività e la violenza di chi ha disturbi mentali verso gli operatori? Io sono in un servizio, fatto di gente in carne e ossa, e vedo in faccia coloro che ci lavorano: chi entra in servizio adesso è molto meno sereno di chi arrivava 20 anni fa; ci vuole però tranquillità per curare persone che del tutto tranquille non sono.
Si può dire quindi che parte della responsabilità di questa situazione stia nella carenza di risorse che vive la salute mentale?
Ho passato parte degli ultimi tre o quattro anni della mia attività insieme agli operatori che fanno la prima accoglienza di chi arriva a chiedere aiuto: il personale si è drasticamente ridotto, può capitare che ci siano delle urgenze e che chi viene debba aspettare, oppure che qualcuno abbia appuntamento con un dottore ma gli si debba dire che il medico non c’è perché ha dovuto andare in ospedale a sostituire un collega assente. La carenza di risorse ha un impatto diretto su chi ha un disagio mentale e può essere una delle cause di reazioni di insofferenza che rischiano di sfociare in atti violenti.
Come si può intercettare chi non vuole essere curato?
Queste persone, che la clinica psichiatrica definisce «non collaboranti», sono sempre esistite. Il punto è che, come dice il professor Andrea Fagiolini, direttore della clinica universitaria di Siena, il farmaco, che sembra qualcosa di neutrale, di asettico, ha effetto e funziona a seconda di chi lo dà e di come lo dà, se si inserisce all’interno di un rapporto per cui una persona viene accompagnata nelle fasi iniziali, in cui comincia a prendere un farmaco e si accorge che qualcosa dentro di lei sta cambiando. Questo dovrebbe avvenire soprattutto all’interno di un servizio di salute mentale: bisognerebbe spiegare gli effetti delle sostanze, non fare la prescrizione e dire che il paziente deve prendere i farmaci perché lo dice il medico, a cui si deve ubbidire. Oggi, invece, si verifica proprio quest’ultima situazione, un po’ perché non ci sono risorse e personale, quindi nemmeno tempo per seguire adeguatamente chi vive un disagio psichico, e un po’ perché la cultura si sta purtroppo spostando in quella direzione.
Foto in apertura da Pixabay
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