Non profit

Ville e disoccupazione, i rom a casa loro

Nei villaggi romeni da dove arrivano i "nomadi" delle baraccopoli di Milano

di Daniele Biella

Dalla zona di Craiova si mettono in viaggio in cerca di un lavoro in Italia. Primo obiettivo: comprarsi abitazione e macchina. Raccolti i soldi tornano al “paese”. Ma in Romania non restano per molto. «Se sto qui non guadagno», il ritornello è sempre lo stesso. Vite a metà che abbiamo conosciuto di persona

 

La piccola Giorgiana è triste. Mamma e papà sono lontani: in Italia, si spostano tra una baracca e l’altra nella periferia di Milano, sgombero dopo sgombero. Lei, invece, a soli 12 anni, fa andare avanti il pollaio, l’orto, accudisce il cavallo. Vive in una casetta dignitosa, con una zia, la sorellina, qualche cugina. Le mancano i genitori, ma sta meglio di un anno fa. Perché ora questa è la sua casa. «Non ce la facevo più a fare quella vita nel campo nomadi, mi vergognavo. Meglio qui, almeno per noi ragazzi».

Benvenuti a Tintareni
Il “qui” di Giorgiana si chiama Tintareni, minuscolo centro nelle campagne del Sud-Ovest della Romania: 6mila anime, tra cui 600 rom (il 10% del totale, dato simile alla percentuale nazionale), che abitano tutti nella stessa via alla fine del paese, la lunga, dritta e asfaltata Judetul Gorj. Separati dai romeni, ma in un vero e proprio quartiere, fatto di case a schiera, con terreno sul retro. Dei campi fatiscenti nostrani, nemmeno l’ombra. Neanche nella vicina Craiova, o a Bucarest.
I rom di Tintareni, l’italiano lo parlano bene: quasi tutti hanno passato un periodo nel Belpaese. Come Giorgiana: «Molti di noi hanno vissuto al campo di via San Dionigi a Milano, sgomberato nel settembre 2007». Dopo lo sgombero, i genitori della ragazza sono rimasti in Italia. Giorgiana e gli altri sono tornati in Romania, a Tintareni oppure a Salcuta, paese d’origine dei rom dell’ex campo di via Capo Rizzuto, sempre a Milano. Alcuni invece hanno fatto rotta verso la cittadina di Bals, dove la gran parte ha parenti che vivono nell’unico campo regolamentato di Milano, quello di via Triboniano. Chi li ha intercettati, nel loro andirivieni di questi anni, è la Fondazione Casa della Carità. In Italia e in Romania, dove da qualche mese tenta di creare nuove occasioni di lavoro: «Il passo successivo all’accoglienza è la ricerca delle cause che li spingono a lasciare tutto per venire da noi». Spiega così l’impegno della fondazione il brianzolo don Massimo Mapelli, 36 anni, che a Tintareni e dintorni è uno dei gagè (“non rom”) più stimati. «Dalla Romania scappano perché sono i più poveri, e discriminati, tra i poveri romeni».

Chi sono io?
Sei rom? «Non lo so più nemmeno io», risponde Liliana Constantin, 30 anni, che vive con la madre e il figlioletto di 6 anni in un quartiere di case di legno attaccate ai binari della stazione di Bals. «Nel nostro villaggio non portiamo gonne, alcuni parlano a malapena il romanés», la lingua rom di origine indiana. Liliana è una rudari (ceppo di rom artigiani del legno), ma non sa di esserlo. E c’è chi le nega l’identità: «In questa zona di rom non ce ne sono, sono tutti dall’altra parte della città», ci dice, davanti a Liliana, il sindaco di Bals. Ma i rom non sono spariti. «Il 50% dei bambini di strada della Romania è rom. Lo stesso negli orfanotrofi», rivela Franco Aloisio, vicepresidente di Fundatia Parada. «Già a pochi anni d’età», continua «la strada diventa il loro ambiente naturale, e recuperali è molto difficile». Spesso alla povertà si aggiunge la discriminazione: «Nessuno si farebbe servire da un rom al ristorante».

Romeni vs rom
Quote garantite di posti per rom in Parlamento. All’università. L’istituzione a livello comunale, dal 2006, di un Ufficio per i problemi dei rom. Il governo di Bucarest, spinto anche dalle direttive Ue, sta affrontando di petto il problema discriminazione. «Io reputo i rom persone come me», interviene Maria Vasilescu, 55 anni, popolare “sindaca” di Tintareni, «per farlo capire alla mia gente, la prima strada che ho fatto asfaltare è stata Judetul Gorj, la loro via». La donna, da ex insegnante, conosce tutti in paese. Romeni e rom, anche quelli partiti per l’Italia, che sono più o meno la metà degli abitanti della città. È lei che fa da garante al primo progetto di inserimento lavorativo di cinque rom in un’azienda romena di serramenti in atto da gennaio 2009 finanziato con 35mila euro (più i macchinari) dalla Casa della Carità.

Status symbol
«Non si dica che i rom non vogliono lavorare», afferma Radu Borogan, 52 anni, capo del Partito dei rom, sezione di Tintareni (è uno dei due membri rom del Consiglio comunale, gli altri 13 sono romeni). Ma l’impressione è che ben pochi abbiano un’attività. «Durante il regime di Ceausescu, nonostante tutto, ognuno aveva un lavoro. Poi non è più stato così», continua Borogan, «altrimenti la gente non andrebbe a cercar fortuna altrove».
Chi rimane sono soprattutto bambini e anziani. E chi vive di rimesse. Octavian Albastroiu per esempio: 41 anni, la moglie Guta, 39 (e un piccolo esercito di nipotini), ai quali arrivano dai due figli in Italia 300 euro al mese, 50 in più del salario medio romeno. Ma da questi parti si incontra anche chi ha sfondato. Florin Condaca, musicista che, invitato a esibirsi a suon di euro nei matrimoni rom di tutta Europa, si è “fatto” la casa più bella di Salcuta, una villetta con un enorme giardino. Casa come status: di solito chi è andato all’estero l’ha più grande. Lo stesso vale per le macchine. Sono belle, comprate (usate) fuori dalla Romania. «La Nissan Frontera in cui sei seduto l’ho pagata 10.200 euro, frutto di due anni da asfaltatore in Lombardia», ci tiene a dire il 40enne Lucan Dumitru, anche lui ex di via San Dionigi. Il suo villone giallo, a Tintareni, ha tre piani: l’ha costruito assieme ai due fratelli con i risparmi di anni. «Ma se la vuoi, te la vendo. A soli 30mila euro, a me ne è costata 45mila». Perché? «Cosa me ne faccio, in fondo? Se sto qui non guadagno…». Lui, come altri, tornerà presto in Italia. Invece Liliana vuole rimanere: dopo tre anni tra Rho e Milano, «in cui mendicavo alla stazione di Cadorna, alla Centrale con mio figlio in braccio», la donna è tornata a Bals lo scorso ottobre. «Non rimetterò più piede in Italia, era una vita di inferno. Meglio qui: anche con mille difficoltà (un treno l’ha resa zoppa a 5 anni, riceve un’invalidità equivalente a 50 euro mensili, ndr.), almeno mi rimane la dignità». Ma per i giovani, l’estero rimanere l’unica aspirazione. Come per Dimitri, 18 anni, che ripartirà «dopo aver raccolto i cento euro per il pullman», o Erina, 15, che dell’Italia ha grande nostalgia. Nonostante le baracche? «Nonostante tutto».

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