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Vignarca: «Prima si blocchi l’export di armi alla Turchia. Poi si pensi a come intervenire»
«Negli ultimi 4 anni abbiamo venduto ad Erdogan 460 milioni di euro di armamenti. Oltre ad avergli trasferito il nostro know how per la costruzione in porprio. Ora si metta l’embargo. E poi Stati Uniti, Cina, Russia e Unione Europea intervengano con una strategia che torni a dare voce ai cittadini siriani, iracheni, e curdi», sottolinea il coordinatore della Rete Italiana per il Disarmo
L’offensiva turca in Siria ha suscitato un’immediata e generalizzata convergenza di solidarietà nei confronti del popolo curdo. In queste ore sui social e nelle dichiarazioni pubbliche da parte dei parlamentari di maggioranza è un continuo fiorire di invocazioni al blocco della vendita di armi alla Turchia. Che però stenta a prendere forma come scelta di Governo. «È una scelta necessaria che va presa in tempi rapidi», sottolinea Francesco Vignarca, coordinatore della Rete Italiana per il Disarmo dal 2004, per il quale «non è certo una sorpresa quello che sta succedendo. È dal 1920 che i quattro Paesi che dividono il Kurdistan, Iraq, Siria, Turchia, fanno il gioco dei quattro cantoni. Ognuno ritiene i curdi che sono nei propri confini terroristi e quelli al di fuori minoranze da tutelare». Lo abbiamo intervistato per capire un po’ di più della crisi che stiamo vivendo.
Si parla da giorni di un blocco della vendita di armi alla Turchia. La auspicano diversi Paesi europei, come Germania e Francia, e anche stando alle dichiarazioni del Governo, è la strada che vuole prendere l’Italia…
Sì, c’è già una interrogazione presentata da alcuni parlamentari del Pd, in particolare Giuditta Pini e Matteo Orfini. L’iter parlamentare però è lungo. Chi può prendere questa decisione immediatamente è il Governo
La Costituzione dice che, nel caso di conflitto armato, è fatto divieto della vendita di armi. Perché c’è bisogno di una decisione del Governo?
La legge lo prevede ma il Governo deve fare un atto per applicarla. Un po’ come il caso dei mandati di Formigoni in Lombardia. I mandati dovevano essere due. Ma se non ci sono atti che lo obblighino a fermarsi lui può fare il terzo mandato.
E chi deve prendere questa decisione?
È Luigi Di Maio a dover fare formalmente un decreto e comunicarlo all’Uama. Per questo noi ci rivolgiamo al Ministro degli Esteri. Sta a lui prendere questa decisione
Quando parliamo di vendita di armi italiane alla Turchia di che numeri parliamo?
Purtroppo non siamo in grado da qualche anno a questa parte di sapere con precisione cosa stiamo vendendo. Questo perché le modifiche alla relazione della legge 185 non ci permettono di incrociare i dati. Una cosa denunciamo da tempo. Così oggi non possiamo sapere che aziende vendono, quanto vendono e cosa vendono. Possiamo sapere solo un importo totale di export e per che macro categorie di armamenti. Per essere più precisi: sappiamo che nel 2018 sono state fatte 70 licenze di esportazione definitiva per un controvalore di 360 milioni di euro per armi o sistemi di arma superiori ai 19,7 millimetri di calibro, bombe, siluri, missili, munizioni, apparecchiature per la direzione del tiro, aeromobili e software. Non sappiamo però nel dettaglio che categorie vendiamo e per che dimensione.
E cosa sappiamo delle vendita a Erdogan?
Nei confronti della Turchia certamente abbiamo autorizzato, negli ultimi 4 anni, 890 milioni di euro e venduto oltre 460 milioni di euro. Bisogna chiarire che le autorizzazioni fanno capire la volontà politica, cioè autorizzano la vendita e la quota massima. Poi ci sono i veri contratti. Quello che si può dire è che dal 2016 ad oggi le nostre vendite nei confronti della Turchia sono raddoppiate. Nel 2016 vendevamo alla Turchia 75 milioni di euro, nel 2017 147 milioni di euro e nel 2018 162 milioni di euro.
Il blocco delle armi però non inciderebbe sul conflitto. La Turchia è ampiamente attrezzata per continuare l’offensiva. Non è un po’ poco come intervento dissuasivo?
Certamente la Turchia non è un Paese dipendente in assoluto dall’estero. Buona parte della armi se le costruiscono in proprio. Ed è colpa nostra. Gli elicotteri d’assalto T129 sono una derivazione dei nostri AW 129 Agusta. Abbiamo fatto una joint venture per costruirli assieme e gli abbiamo trasferito il nostro know how. Un errore drammatico perché così si perde ogni controllo. Detto questo rimane il fatto che, a parte Stati Uniti e Russia, in caso di conflitto protratto, com’è quello siriano, tutti i Paesi hanno bisogno di approvvigionamenti. Quindi lo stop ha principalmente un valore politico sul breve termine ma sul lungo periodo avrebbe anche un valore concreto.
Intanto l’Unione Europea rimane bloccata nelle sue discussioni…
L’immobilismo europeo dimostra che cercare con certi leader un accordicchio non funziona mai. L’abbiamo visto diverse volte in questi anni, come con Saddam e Gheddafi. Nella politica di sicurezza bisogna avere coraggio. Questo coraggio manca all’Europa. Già l’Ue non ha una voce sola, se poi quando questa voce univoca si trova viene usata per trovare accordi più o meno solidi le cose non si risolvono. Per non essere coinvolti si finisce per venire coinvolti in modo più grave.
Onu e Nato che fine hanno fatto?
L’Onu parla per quel che può, ma, come l’Europa, non trova accordi a livello di Consiglio di Sicurezza. A dimostrazione che vanno modificati i meccanismi e le strutture. Di fronte a un caso così esplicito che l’Onu si auto escluda è grave. La Nato è peggio. È un’alleanza diretta che oggi vede un Paese che fa qualcosa di inconciliabile con le carte e il senso dell’Alleanza. La Nato non può tollerare che la Turchia faccia quello che sta facendo magari assoldando bande di tagliagole. Se la Nato è un’alleanza per la democrazia e i diritti, deve imporsi. Non può accettare che ci siano Paesi che fanno quello che vogliono. In alternativa dicano di essere solo un’alleanza per il predominio militare e getti la maschera.
Oltre al blocco militare che altro si può fare?
Le soluzioni dei conflitti non sono semplici. E questo conflitto è solo una delle espressioni di un contesto molto complesso in cui abbiamo il doppio vulnus di Siria e Iraq. L’invasione della Turchia non è un fatto a sé stante e isolato. L’unico modo è che le grandi potenze, Stati Uniti, Russia Cina e Europa, decidano di imporsi e bloccare le escalation. E poi diano voce alla società civile. I popoli non vogliono la guerra. È a loro che bisogna dare voce.
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