Mondo
Viaggio nell’inferno di Rosarno
Le testimonianze degli operatori che lavorano nella Piana di Gioia Tauro. I 3000 migranti che raccolgono gli agrumi vivono in condizioni disumane. Lavorano 12 ore al giorno e vivono nelle latrine all’aria aperta. Nella tendopoli di San Ferdinando un ragazzo di 27 anni è morto ammazzato dal colpo di pistola di un carabiniere. Non si conoscono le dinamiche dei fatti. «La genesi di quell’episodio sta nel degrado in cui sono costretti a vivere», dice don Pino de Masi, rappresentante dell’associazione Libera
di Anna Spena
Oggi l’autopsia al corpo di Sekiné Traoré il ragazzo maliano di 27 anni ucciso da un colpo di pistola sparato da un carabiniere nella tendopoli di San Ferdinando a pochi chilometri da Rosarno nella Piana di Gioia Tauro. Era uno dei 450 braccianti che vivono nella tendopoli e, anche lui come gli altri, si guadagnava da “vivere” raccogliendo gli agrumi. Il carabiniere che ha sparato è stato indagato, ma il procuratore di Palmi, Ottavio Sferlazza, che si occupa del caso, ha dichiarato: «Il contesto e la dinamica di quanto accaduto autorizzano a pensare, pur con tutte le cautele del caso e senza voler anticipare alcuna conclusione, che possa delinearsi una legittima difesa».
Non c’è ancora nessuna verità ufficiale. Le versione sull’accaduto sono contrastanti. Si dice che Sekiné Traoré fosse ubriaco, violento, avesse con sè un’arma, un coltello che ha utilizzato per aggredire il carabiniere. Altri raccontano, invece, che il coltello non era che un coltellino a seghetto e che il colpo, il poliziotto, l’ha sparato quando il ragazzo era già a terra.
Nel comunicato dei carabinieri si legge: «Dopo aver lanciato pietre ed altri oggetti contro gli operanti, Traoré si avventava nuovamente contro gli stessi colpendo con un fendente al volto, all’altezza dell’occhio destro. Anche nel frangente il maliano veniva nuovamente allontanato, ma nonostante questo ennesimo tentativo di evitare lo scontro fisico, questi si scagliava ancora una volta contro il militare precedentemente ferito al viso che reagiva all’aggressione con un colpo della pistola d’ordinanza, che nella concitazione degli eventi attingeva il Traoré all’addome».
«Nessuno sa bene quali sono state le dinamiche», racconta Giulia Bari di Medu, Medici per i diritti umani, che assiste i migranti nella Pianura di Gioia Tauro da tre anni. «Sappiamo che hanno litigato per un pacchetto di tabacco e l’accendino. Erano in tre. La lite è degenerata. È altri ragazzi presenti hanno chiamato le forze dell’ordine. La verità ancora non si conosce».
Se quello che è successo la scorsa mattina rimane ancora un mistero, c’è un ‘altra verità, invece, che ormai da anni le istituzioni fanno finta di non vedere. «Litigare per un pacchetto di tabacco in quel modo, rende l’idea del grado della tragedia in cui quelle persone vivono».
I migranti che vivono nella tendopoli di San Ferdinando adesso sono circa 450. Ma durante i periodi di raccolta di agrumi, di clementine ed arance, da ottobre fino a marzo, il campo arriva a contenerne 1200. Insieme a loro, poi, esistono altri 1500 invisibili che vivono nella Piana di Gioia Tauro: nei casolari abbandonati, nelle fabbriche dismesse, nelle baracche in mezzo al niente.
Vengono dal Gambia, dal Burkina Faso, dal Senegal, dal Gana, dal Mali. Abbandonati a se stessi. Persone con un permesso di soggiorno regolare che vengono stremate, costrette a lavorare 12 ore al giorno per 25 euro. In un posto dove la criminalità organizzata la fa da padrone.
«La tendopoli di San Ferdinando è stata costruita nel 2011», ci racconta Bartolo Mercuri, presidente della Casa di accoglienza il Cenacolo. Bartolo aiuta i migranti a compilare i documenti per richiedere il permesso di soggiorno. Dentro al campo lo chiamano “papà Africa”. «Nella tendopoli ci sono solo 4 bagni; uno è per le donne». Quelli che Bartolo chiama bagni sono latrine all’aria aperta. «Io con i volontari della mia associazione gli faccio da mangiare, li aiuto con i documenti e gli porto le scarpe».
Dal 2011 nella Piana di Gioia Tauro è presente anche Emergency. «All’inizio avevamo due “Polibus”», racconta Alessia Mancuso coordinatrice in loco dei progetti. «Giravamo con questi bus che poi all’occorrenza diventavano delle vere e proprie cliniche mobili. I migranti abitano nelle zone rurali, fuori dal contesto cittadino. Li visitavamo il pomeriggio e la sera. Quando smettevano di lavorare nei campi».
Poi Emergency ha scelto di rimanere nel territorio e ha preso in gestione una struttura fissa a Polistena. «È uno stabile sequestrato alla ‘Ndrangheta», spiega Alessia. «Abbiamo ideato un servizio di navetta. Tre volte al giorno gira per la Piana e i migranti che vogliono essere visitati, vengono accompagnati qui». La maggior parte dei braccianti che arriva alla struttura di Emergency ha dai 20 ai 30 anni.
«Di fatto», continua Alessia, «sono giovani in salute. Le patologie che presentano sono legate alle condizioni disumane di lavoro a cui sono sottoposti e alle inesistenti condizioni igieniche del contesto in cui vivono». Questi ragazzi soffrono di problemi intestinali, dermatiti, lombosciatalgia. La struttura è stata aperta nel luglio 2013, a distanza di quasi tre anni sono stati oltre 13mila gli accessi registrati. E la situazione sta degenerando «perché», sottolinea Alessia, «stanno arrivando tanti ragazzi che presentano problemi psicologici e hanno bisogno di essere seguiti da specialisti».
Il dato che ci racconta Alessia non sorprende viste le condizioni inumane in cui sono bloccati questi giovani ragazzi. «Hanno detto che Sekiné Traoré era ubriaco», dice don Pino de Masi, parroco nel Duomo di Polistena rappresentate di Libera associazioni, nome e numeri contro le mafie.
«Ma teniamo conto che stiamo parlando di una tendopoli dove c’è una situazione oggettiva di degrado. C’è una frustrazione là dentro che prostra sia il corpo che la mente. Capita che in una situazione così drammatica si combatta il degrado con l’uso e l’abuso di alcol. Forse per non pensare. L’episodio dell’altro giorno, di cui non consociamo ancora bene le dinamiche, è degenerato. Ma la genesi di quell’episodio è ancora qua dentro, dove la dignità delle persone viene messe sotto i piedi. Questo è un campanello d’allarme e i migranti sono l’ultimo anello emarginato di un contesto e di un posto che sono già emarginati».
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