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Via da Palermo con un amaro perchéLe buone lezioni di cittadinanza

di Marco Dotti

Era il 6 agosto del 1985, quando Ninni Cassarà, vicequestore di Palermo e collaboratore del giudice Falcone, venne freddato dai colpi di nove uomini armati di kalashnikov, in agguato sotto il portone di casa. Antonio Calabrò, una delle firme più note de L’Ora, il quotidiano al tempo maggiormente esposto sul fronte antimafia, prese proprio quel giorno la decisione di lasciare Palermo e di “emigrare”.
25 anni dopo la morte tragica dell’amico Ninni, Calabrò – docente di Storia del giornalismo alla Bocconi e attuale direttore della Fondazione Pirelli, dopo essere stato a Il Sole 24 ore – riflette sulle ragioni profonde, pubbliche e non solo personali di quella scelta e sul significato, così amaro, di quello sradicamento volontario che per un cronista non più giovanissimo e quasi all’apice della carriera si configurava più come esilio, che come fuga.
Palermo, scrive Calabrò tra le pagine di Cuore di cactus, «è stata ed è l’inferno, uno dei suoi gironi peggiori», ma proprio per questo «mentre il viaggio al termine della notte dei ricordi e dei bilanci va verso la fine, di questo inferno bisogna provare ad avere ragione», riconoscendo, come già invitava a fare Italo Calvino, chi e che cosa «in mezzo all’inferno, non è inferno». Quelle di Calabrò sono pagine di un intenso diario pubblico che affronta alcuni dei nodi più duri della recente storia d’Italia. Calabrò lo fa con sensibilità e intelligenza, quasi con garbo, ma senza celare mai – e qui sta la forza del libro – contraddizioni e traumi di una scelta i cui presupposti erano e continuano ad essere, prima di tutto, tragici.


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