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Vi spiego il fenomeno Inter

Il successo di Mourinho visto da Sergio Manghi, sociologo e osservatore fuori dagli schemi

di Sara De Carli

Un libro dedicato a Zinédine Zidane e a Marco Materazzi, Zidane. Anatomia di una testata mondiale che sarà il numero 41 di Communitas, allegato a Vita in edicola da venerdì. Ma anche una lettera a Mario Balotelli, «ingrata giovane Africa Nera fattasi integralmente Italia» che ha osato sfidare l’invidia di un’intera nazione, incarnando «il sogno pupon-popolaresco» di tutti gli italiani: «poter dire e fare e trasgredire a piacimento, cuore in mano e viscere al vento, come un bimbo capriccioso». Sergio Manghi, classe 1947, è un sociologo e non tifa Inter: ma gira e rigira le sue riflessioni legate al mondo del calcio arrivano sempre lì.

Non è che l’Inter ha effettivamente qualcosa che la rende più “sociale” di altre squadre, al di là del tifo?

Sergio Manghi: Senza dubbio l’Inter ha un interesse sociale marcato, di cui le tante iniziative filantropiche e culturali che le girano attorno, dalla fondazione di Zanetti al Teatro blu della Fondazione Facchetti, sono solo un tassello. Tra l’altro neanche molto noto.

Piace il volto politically correct e di sinistra, un po’ il volto buono del capitalismo?

Manghi: Sì, ma non solo. Penso al fatto che alcuni suoi giocatori hanno uno stile, qualcosa che tiene insieme etica ed estetica: è questo che lascerà un segno nel tempo. Penso a Zanetti e ad Eto’o: hanno un impegno sociale, sì, ma mi piace moltissimo come si comportano sul campo, unendo agonismo, correttezza e stile. Chiaro che c’è un aspetto strumentale, però non può essere tutto lì?

La colpisce più lo stile che la filantropia?

Manghi:La testimonianza passa più per l’estetica che per l’etica, quel che può lasciare il segno è l’unione delle due cose. Zanetti ed Eto’o sono persone che si ricordano normalmente che esiste un mondo più ampio di quello del calcio, fare filantropia è questo, mentre la gran parte dei giocatori vive dentro il calcio come se quello fosse l’inizio e la fine del mondo. In più lo associano a uno stile: non parlo della correttezza morale, del rispetto delle regole, ma anche della ricerca di un’unione emotiva forte con il pubblico sulla base di valori ludico-estetici. Non è cosa da poco.

Perché?

Manghi: Il calcio è il più grande rituale collettivo del mondo, con attese pseudosalvifiche espresse con un linguaggio comune a tutto il pianeta. Certo che è pseudosalvifico, ma in ciò che è umano non c’è mai il puro “pseudo”, tutto ciò che è umano è potenzialmente fonte di senso. Diceva De André che dal letame nascono i fiori, vuole che non nascano dal calcio?

Non è esagerato tirare in ballo la salvezza?

Manghi: Se vogliamo usare una parola grossa, la grazia – non sono religioso, uso il termine in senso ampio – attraversa tutte le esperienze umane, non c’è nessun luogo che non ne è toccato. Certo è sempre ambigua, ambivalente, in questo mondo anche carica di esibizionismo. Però quando c’è di mezzo il bello, c’è sempre un argine al nichilismo. E il calcio ne è un vertice, perché macina il senso e traduce tutto in spettacolo.

Lei tifa Inter?

Manghi: No, io sono della Fiorentina. Ma l’Inter mi è simpatica: e lo era ancora di più quando perdeva sempre. Mio padre era un funzionario del Pci negli anni 50, uno di quelli squadrati, ineccepibili, però si infervorava per l’Inter. Quando avevo 12 anni andammo a San Siro, vidi giocare Pelé, è uno dei ricordi più belli della mia infanzia.


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