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Vi regalo uno spettacolo: volti che gridano speranza

Emmanuel Exitu, regista fuori regola, racconta il film su Melazzini e la Sla

di Chiara Cantoni

Ha scelto di fare cinema per raccontare le esperienze
di uomini e donne capaci di rovesciare in positivo destini drammatici. Il prossimo
è dedicato al fondatore
del Centro Nemo dove si curano i malati di Sla. «Nei miei documentari agiscono
i testimoni. Io seguo»
Si definisce un «disordinato metodico», le cose gli capitano non si sa mai bene come, ci finisce dentro e amen. A Roma, il regista bolognese Emmanuel Exitu, nome d’arte tratto da In Exitu, opera drammatica di Giovanni Testori, ci è arrivato per caso, prestato dapprima a mestieri fortuiti in teatro e in tv; oggi, arruolato a tempo pieno come testimone della realtà, per raccontare volti e frammenti di speranza che, assicura, fanno la differenza. Ha cominciato tre anni fa, col primo documentario Greater – Schiacciare l’Aids, sul Meeting point international di Kampala, centro di cura per malati di Aids fondato negli slums della capitale ugandese dall’infermiera Rose Busingye. E non si è più fermato. Dopo il premio Babelgum, ricevuto a Cannes nel 2008 dalle mani di Spike Lee, il giovane regista ha voluto raccontare in presa diretta l’esperienza dell’affido: ne è nato La mia casa è la tua, film, presentato a febbraio, sull’associazione Famiglie per l’accoglienza. Oggi, mentre termina con una mano il montaggio dell’ultimo dvd, realizzato nelle corsie del Centro clinico Nemo presso l’Ospedale Niguarda di Milano, con l’altra sta già tastando il terreno per il prossimo progetto: un lavoro sugli stati vegetativi. «Ma parlarne adesso è ancora prematuro».

Vita: Cominciamo dalla fine: perché un documentario sulla Sla?
Exitu: Lo dico subito, il mio non è un film sulla sclerosi laterale amiotrofica, ma sulla speranza di un uomo, Mario Melazzini, che dentro la malattia costruisce per la vita. La domanda di partenza è: di fronte alla tragedia, esiste un’alternativa al desiderio di morte? C’è qualcuno che vuole vivere una condizione del genere? Se sì, devo vederlo.
Vita: Un video pro life, quindi?
Exitu: Salire in cattedra col mignolo alzato e apostrofare il pubblico con insopportabili lezioni su come dovrebbe girare il mondo? No, grazie. Chi fa spettacolo, come me, sa che la didattica non funziona: la gente si stanca e dopo due minuti smette di guardare. L’unica chance è mostrare qualcosa di autentico, di autenticamente interessante. La Sla e l’Aids, che per qualcuno sono drammi, per la maggior parte delle persone sono solo sigle. Ma uomini veri, come Rose o Mario, tengono tutti inchiodati alla sedia.
Vita: Accostare malattia e spettacolo: non suona un po’ cinico?
Exitu: Suona cinico dire che un tramonto di fuoco è uno spettacolo? Volti che gridano al mondo la loro speranza non sono forse il più potente spettacolo della natura? Perché, insisto, la mia idea è trasmettere la realtà attraverso gli occhi di chi la ama: bella, brutta, contraddittoria, misteriosa.
Vita: Come ha convinto i suoi “attori” a farsi riprendere?
Exitu: Rose Busingye, la madre Teresa nera che, nelle baraccopoli di Kampala, assiste oltre duemila malati di Aids e altrettanti bambini orfani, l’ho letteralmente inseguita, con insistenza: «La speranza di cui parli, io non ce l’ho. Ma ho gli occhi e voglio vedere come fate a vivere». Poco dopo ero in Uganda fra le donne, i dottori, gli infermieri e i volontari del Meeting Point. Il video sulla Sla, invece, è nato su commissione per i 70 anni del Niguarda di Milano, dove Melazzini, già presidente di Aisla, dirige dal 2007 il Centro clinico Nemo, struttura polifunzionale per la cura e la riabilitazione di malattie neurodegenerative. Ma la domanda di partenza era la stessa: perché un uomo, che dopo una diagnosi infausta prende contatti con una clinica svizzera per morire, a un certo punto fa marcia indietro e si mette al servizio degli altri pazienti?
Vita: Già, perché?
Exitu: Queste persone vanno viste in azione. Ho lavorato sodo, nei film, perché il coraggio non diventasse un discorso: li ho seguiti in silenzio, con discrezione, documentando la loro giornata, il loro lavoro dalla parte degli ultimi. In Greater, spezzoni di interviste in cui Rose e le sue donne si testimoniano a vicenda fanno da contrappunto al racconto della quotidianità. Nella settimana di Mario il contrappunto è dato da una scena notturna che lo ritrae coricato sul letto, una pausa lirica nel dinamismo operativo della giornata, che schiude il punto di rimbalzo, il contraccolpo dalla disperazione all’intuizione di una vita infinita. Quando, guardando con odio le montagne che non riuscirà mai più a scalare, si accorge improvvisamente di quanto siano belle.
Vita: Possibile che un istante di commozione permetta di affrontare una vita di disabilità?
Exitu: Melazzini testimonia quello a cui nessuno di noi crede per davvero: che uno sguardo ferito dalla bellezza possa trascinare dietro tutto. Il punto è: come faccio a raccontare la sovrabbondanza di gioia, coraggio, letizia, in una parola la speranza, senza farne una favola sentimentale con morale e lieto fine? Come faccio a essere leale con questa realtà? Ho pensato che lo stile più adatto, telecamera alla mano, fosse quello del reportage di guerra, dove non hai tempo di impostare la macchina o di curare l’inquadratura: segui Mario e riprendi, dirigendo gli operatori a gesti nei campi e controcampi, in silenzio, cercando di essere meno invasivi possibile. È un linguaggio sporco, senza filtro, che assegna allo spettatore il ruolo di compagno di viaggio più che di voyer. Fra un mese e mezzo uscirà il dvd.
Vita: A nemmeno tre mesi da quello sull’affido.
Exitu: L’associazione committente, Famiglie per l’accoglienza, che dal 1982 riunisce migliaia di coppie in tutta Italia aperte all’affido e all’adozione, mi ha dato carta bianca. Non mi interessava girare un documentario istituzionale, ma capire perché nasce e cosa produce un amore coniugale che si spalanca. L’idea iniziale era semplice e in apparenza geniale: avrei raccontato l’esperienza delle famiglie, partendo dalla loro prima evidenza, i frutti, ossia i ragazzi accolti. Volevo mostrare come fossero cresciuti, cosa avesse significato per loro la scoperta di un amore ritrovato. Per risalire poi alla coppia. Detto brutalmente, parti dal prodotto finito per arrivare all’artefice. Bene, ho incontrato, intervistato, ripreso i figli. Ma qualcosa stonava.
Vita: Cosa?
Exitu: Nel sentirli parlare, nel vederli all’opera, mi sono accorto di quanto fosse errato l’approccio: non erano monadi, non erano segmenti isolabili dal tessuto relazionale che li generava. Incontrando loro, incontravo le famiglie, non si poteva raccontare gli uni senza raccontare allo stesso tempo gli altri: genitori e figli, parte di un’unica, affascinante storia, senza soluzione di continuità. Ho chiamato Alberto Pezzi, presidente dell’associazione per l’Emilia Romagna, e gli ho chiesto di cestinare il progetto: si ricominciava da capo.
Vita: Ci vuole umiltà.
Exitu: Il mio mestiere mi insegna la tensione ad essere leale con la realtà, che ha un suo metodo nel comunicarsi, un suo linguaggio, una sua estetica. Abbiamo tutti bisogno di testimoni per entrare con verità nelle pieghe della vita. Nei miei documentari agiscono i testimoni. Io seguo.

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