Dietro le sbarre
Vi racconto i miei 27 anni in carcere. Da volontaria
Ornella Favero dirige dal 1997 la rivista della Casa di reclusione di Padova "Ristretti Orizzonti" ed è presidente della Conferenza nazionale volontariato giustizia. «La prima motivazione è la curiosità per una realtà che non avrei mai conosciuto». In riferimento al recente arresto di una suora volontaria con l'accusa di concorso esterno in associazione mafiosa, dice: «L’appartenenza a un’associazione è una garanzia di un approccio più professionale, mette al riparo dal rischio di ingenuità»
«Sono volontaria in carcere da 27 anni: un ergastolo», dice, in modo scherzoso, Ornella Favero, giornalista, presidente della Conferenza nazionale volontariato giustizia, fondatrice e direttrice dal 1997 della rivista della Casa di reclusione di Padova Ristretti Orizzonti.
Favero, come ha iniziato il volontariato in carcere?
Ho iniziato un po’ casualmente, ci insegnava mia sorella che mi ha invitato un giorno (ero già giornalista) a fare un paio di lezioni sulla comunicazione alle sue classi. Un gruppo di detenuti mi disse che non si ritrovavano nei quotidiani per come venivano descritti, per come si parla del carcere o dei reati. Mi chiesero di fare insieme un foglio di informazione, un bollettino. Da lì è nata l’idea di fare Ristretti Orizzonti, una vera sfida.
Qual è stata la sfida?
La sfida è stata quella di non fare un giornalino. In carcere i diminutivi impazzano, è tutto infantilizzato, finisce tutto con la desinenza -ino (ad esempio, la “domandina”, appellativo della richiesta di un detenuto). Il mio ha la dignità di un giornale, di una rivista, di livello più che buono. La sfida è stata subito quella di lavorare sulla qualità, di non pensare che un prodotto, poiché fatto da detenuti, potesse avere un livello non alto.
Quali sono le sue motivazioni per fare volontariato in carcere?
Io credo che sono tante le motivazioni. La prima è la curiosità per una realtà che non avrei mai conosciuto, che ruota tutta intorno a come si può arrivare a fare il male. È un tema che mi appassiona, quello di capire come una persona possa arrivare a passare sopra a tutto anche alla sua famiglia, quali leve possono spingerla e che cosa può far tornare a recuperare l’umanità di queste persone. Poi io ho sempre avuto un interesse nell’ambito sociale, lì ci misuriamo con tanti temi perché si ha a che fare con soggetti molto difficili. C’è tutto il tema della violenza. Il convegno che faremo, nella Casa circondariale di Padova con Ristretti Orizzonti, come ogni anno, a maggio, nel 2025 avrà il titolo “Disinnescare”.
Perché questo titolo?
Perché tuttora le carceri sono bombe a orologeria. Una delle mie motivazioni è portare la passione per il sociale in una situazione anomala, che non è esattamente quella a cui siamo abituati, con situazioni in cui si va a fare volontariato perché ci sono soggetti che ne hanno bisogno. Il carcere è un mondo complesso in cui si ha a che fare con tutti i soggetti, sia con il detenuto (la persona che fa, che agisce il male), sia con i familiari che sono assolutamente innocenti e che subiscono. È una realtà complessa che richiede un intervento di volontariato diverso. Io diffido di qualsiasi tipo di volontariato individuale per il carcere, da responsabile del volontariato nazionale. Noi stiamo rivendicando come volontariato un’autonomia.
In che modo la rivendicate?
Rivendichiamo il fatto di poter avere un ruolo nel percorso della persona detenuta. Nonostante ci troviamo in un’istituzione chiusa, crediamo che questo non possa essere un pretesto per far dipendere i volontari completamente dall’amministrazione. Noi diciamo che vogliamo avere la nostra autonomia, ovviamente rispettando tutti i problemi di sicurezza, ma la sicurezza tante volte diventa un alibi. La sfida è anche quella dell’avere un’autonomia, nonostante ci si trovi in un’istituzione totale, il che non giustifica un volontariato “zerbino” dell’amministrazione.
Come il volontariato in carcere dovrebbe essere più autonomo?
Rivendichiamo un’autonomia nella gestione, per esempio, delle attività nella partecipazione, nell’essere parte del progetto d’istituto, nell’essere coinvolti come associazioni. La persona detenuta viene seguita da vari operatori e partecipa alle attività. Dopo un certo periodo di tempo che è in un carcere, viene fatta la sintesi da un’équipe, composta dal direttore, dall’educatore, dallo psicologo, da un rappresentante della Polizia penitenziaria. Quello su cui noi puntiamo molto è che, prima dell’èquipe, dovrebbe essere indetto un Got.
La scalata alla libertà è fondamentale in carcere. Il ruolo del volontariato in questa scalata può essere molto importante perché noi le persone le vediamo e le conosciamo tanto
Cos’è un Got?
Un Gruppo di osservazione e trattamento, in cui si parla di ogni singolo detenuto. Vuol dire che, per esempio, quando si parla di un momento così delicato come il passaggio dal dentro al fuori, l’inizio di un percorso che prevede l’uscita dal carcere, il volontario ha la possibilità di dire la sua. Un Got prevede la partecipazione non solo degli operatori istituzionali, ma di tutti gli operatori che seguono un detenuto. Ad esempio, se il detenuto va a scuola e fa parte della redazione di Ristretti Orizzonti, del Got dovremmo fare parte sia l’insegnante sia io.
Lo sguardo, il percorso verso l’esterno, il ritenere la persona pronta per iniziare a uscire viene molto ampliato con operatori della società civile. Noi portiamo spesso punti di vista di apertura, di sostegno a un nuovo inizio: la scalata alla libertà è fondamentale in carcere. Il ruolo del volontariato in questa scalata può essere molto importante perché noi le persone le vediamo e le conosciamo tanto. Io le persone detenute vedo anche come stanno insieme nel gruppo, se si mettono in discussione.
Quanti siete voi volontari nelle carceri italiane?
Sono tantissimi anni che non viene fatta una indagine seria sul volontariato in carcere. Non c’è nessun dato. Si parlava di circa 9mila persone, in una vecchia ricerca fatta nel 2008. Se si facesse adesso penso che i numeri, dopo il Covid, siano molto diminuiti. La pandemia ha costituito un momento difficile anche per il volontariato. Ci sono volontari di tutte le età in carcere, molte persone anziane che facevano volontariato da tanti anni si sono un po’ spaventati con il Covid, che ha segnato un momento di grossa crisi. Adesso non è un momento facile perché la crisi è rispetto all’arretramento dell’idea che la società ha del carcere, che secondo me si traduce anche in difficoltà molto più consistenti a fare volontariato in questa realtà.
È recente la notizia di una suora, agli arresti domiciliari, indagata a Brescia per concorso esterno, con l’accusa di garantire «il collegamento con i sodali detenuti in carcere agendo come intermediaria». Vedendo questo fatto di cronaca, secondo lei c’è il rischio che un’attività di volontariato in carcere possa portare al rischio di un “collante” tra il dentro e il fuori, anche in modo inconsapevole?
Questo è il motivo per cui io dico sempre “no” al volontariato individuale. Vedo la possibilità di ingenuità. Se si è in un’associazione, c’è la garanzia, secondo me, che queste cose non avvengono. Intanto le associazioni danno molto spazio alla formazione, hanno anche dei professionisti che fanno volontariato in carcere. Però, a parte gli specialisti, l’importante è che tutti i volontari siano formati e si aggiornino, è un lavoro serio. Questo, a mio avviso, mette anche al riparo da possibili rischi di ingenuità. Può esserci stata, in quel caso di cronaca, qualche ingenuità. Ci vuole attenzione e non accettare i volontari singoli, l’appartenenza a un’associazione è una garanzia di un approccio più professionale.
Foto dell’intervistata
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