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Vi presento Alì e la sua fuga

La storia di uno dei protagonisti dello spettacolo teatrale Studio per una fuga. La via crucis che dal Gambia, attraverso il deserto, lo porta prima in Libia e poi su una barca che, attraverso il Mediterraneo, fa rotta per l'Europa. Una delle tante carrette del mare che naufraga in mezzo al mare

di Ilaria Fiore

Alì è nato in Gambia, ha 18 anni e dei denti splendidamente bianchi. È uno dei protagonisti dello spettacolo teatrale Studio per una fuga. È sulla scena, seduto su una tanica di acqua e racconta la sua di fuga, quella dall’Africa. Ricorda subito l’ultimo saluto di sua madre, le sue mani che gli accarezzano il viso mentre, per la prima volta, gli svela tutti i suoi segreti.

Così ha voluto salutarlo, così ha voluto dirgli addio: Alì e suo fratello devono partire per l’Europa mentre lei deve rimane lì perchè i soldi per il suo viaggio non ci sono. Alì parla, racconta e nel frattempo io chiudo gli occhi e mi fermo ad immaginare quella scena: vedo una distesa di terra rossiccia, sento il calore dei raggi africani e vedo una donna che immagino robusta, vestita di rosso, con dei capelli raccolti in un foulard a tinta con il vestito. Non piange ma è triste.

Sento la voce di Alì che descrive quelle carezze, quel saluto; apro gli occhi e lo vedo toccarsi il viso.
Ora parla di un punto, lo indica con la mano: è il punto che gli hanno detto di fissare nel deserto. «Il deserto è vuoto; non appena fai un passo, un istante dopo l’impronta del piede sparisce. Per questo non devi mai voltarti perchè farlo significa perdere quel punto, quello in cui devi arrivare». Queste le parole di Alì mentre continua ad avere il braccio teso.

Quattro giorni nel deserto: due in macchina e due a piedi. Non c’è cibo; non c’è acqua; la notte fa freddissimo e il giorno fa caldissimo. Finalmente quel punto diventa nitido: è la Libia, è l’inizio di un incubo. Lì Alì passa quattro giorni in prigione, legato mani e piedi, di nuovo senza cibo e senza suo fratello che è riuscito a fuggire. Fortunatamente riesce a scappare anche lui e ad arrivare a Tripoli. Qui una persona lo ferma, lo riconosce e lo porta da suo fratello.

I due, di nuovo insieme, lasciano l’Africa. Con loro ci sono altre 648 persone. In 650 su una barca. È il 12 aprile 2015. Di nuova senza acqua, senza cibo e solo un immenso mare che li circonda. Alì è vicino a suo fratello. Improvvisamente questi lo prende e gli parla in modo insolito. Dalle sue parole trapela una sorta di sconfitta, di rassegnazione. Forse per questo ha voluto raccontargli cose che non gli aveva mai detto, proprio come aveva fatto sua madre. «Ma perchè mi parli in questo modo? Tu sei il fratello maggiore e devi incoraggiarmi», gli dice Alì . Forse suo fratello aveva solo un presentimento, un giusto presentimento.

La sera di quello stesso giorno la barca si capovolge. 650 vite in mare, 650 corpi urlanti. Solo in 150 si salvano e Alì è tra questi ma non suo fratello. Alì lo ha visto galleggiare mentre il mare echeggiava grida di disperazione e d’imprecazione. Alì per cinque mesi non riesce a dormire. Bastava chiudere gli occhi per ritornare in mare, per risentire quella urla. A gran fatica tenta di tornare alla vita normale. Finalmente riesce a contattare sua madre, può dirle che è arrivato in Italia, ma deve dirle che è solo.

4 aprile 2015. Sono le 2 di notte quando Alì riceve la telefonata di un suo amico: la malattia che, da anni, perseguitava sua madre l’ha uccisa. Alì non riesce più a dormire, non può fare nulla. È perso nel suo dolore, il dolore di chi sa di essere rimasto solo al mondo.
Alì è ancora su quella tanica, prima di lasciare la scena vuole dire a tutti che sua madre vive negli insegnamenti che gli ripeteva ogni giorno: «Devi rispettare tutti, anche quelli più piccoli di te perchè il rispetto è la cosa più importante. Non devi toccare nulla che non sia tuo. Se vai in un altro Paese devi mettere da parte la tua cultura e imparare quella nuova».

Solo ora prende la sua tanica e saluta il pubblico con la mano.
Mi avvicino a lui e gli dico: «Alì, credo che tu abbia una forza immensa, sei un esempio da imitare». Lui mi guarda e, mostrandomi i suoi denti bianchi, mi risponde: «Anche se sei piccolo devi avere un cuore grande, questo mi diceva sempre mia madre».

È stato allora che ho richiuso gli occhi e ho rivisto la scena del saluto. Quelle dolci mani sul volto di Alì . Quel vestito rosso, il caldo e il sorriso di quella mamma. Sì, perchè una donna come lei non può aver salutato Alì con un viso triste. Ne sono certa.

Le foto sono a cura di Margherita Pisano

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