Famiglia

Vi parlo di Sara, bolognese come me

Il presidente di Telefono Azzurro racconta di una periferia dai mille colori che può far paura

di Redazione

Sara Jay come Hagère. Come Graziella. La periferia di Bologna come Imperia, come i boschi intorno ad Andria, in Puglia. Storie che definire “di pedofilia” è troppo poco. Perché intorno alla follia ruota un universo di degrado, di particolari non detti, di segnali caduti nel vuoto e, non ultimo, il dramma di un’integrazione difficile. L’assassino di Hagère era rumeno, quello di Sara Jay è slavo.
Eppure è stata lei stessa, prima di morire a 9 anni, a chiederci di non demonizzare lo straniero: Sara giocava con la cinesina Gioia e le piccole nigeriane del quartiere. La sua amica del cuore era la tunisina Ihlem. La sua famiglia aveva conosciuto l’emigrazione, in Germania, dove lei era nata. E Bologna è da sempre un buon esempio di convivenza fra diversità. Ecco perché dopo il dolore regnano i perché. Lo stupore di chi per i minori ha sempre lavorato, come l’Arci Ragazzi regionale, che scrive alle istituzioni per costruire un tavolo comune di prevenzione dell’orrore. E lo stupore doppio di chi, come Ernesto Caffo, riflette su una ferita al cuore della sua città mentre, da presidente di Telefono Azzurro, registra l’ennesima brutale violazione dell’innocenza.
Vita: Sara Jay abitava in via di Corticella, al quartiere Bolognina. Com’è, per un bambino, vivere nella periferia di Bologna?
Ernesto Caffo: La mia città è sempre stata presa a modello perché ricca di servizi sociali e di reti di solidarietà tra famiglie. Ma come tutti i grandi centri, negli ultimi anni è molto cambiata. Il quartiere Bolognina, per esempio, ha sempre rappresentato per noi la sede naturale della classe operaia bolognese, ma con le generazioni ha perso questa sua identità e oggi è il luogo di diverse culture. I rumori, i suoni e i colori non sono più quelli che abbiamo conosciuto. Oggi è un’area multietnica dove mancano gli spazi di aggregazione e il verde. E se per gli adulti il punto d’incontro è per forza il bar, ai bambini non resta che girare di casa in casa per guardare la tv con gli amichetti o giocare alla PlayStation.
Vita: Voi ricevete mezzo milione di telefonate l’anno da minori in difficoltà. Fra questi, non c’è qualcuno che manifesta un disagio legato alla presenza straniera nel suo quartiere?
Caffo: No, non registriamo dati allarmanti su questo fronte. Al contrario, a vivere con disagio l’integrazione sono proprio i figli degli stranieri: l’8 per cento delle chiamate a Telefono Azzurro provengono da bimbi immigrati, o adottati, oppure figli di coppie miste.
Vita: E che problemi vi confidano questi piccoli immigrati?
Caffo: I bambini sono sensori straordinari del disagio degli adulti, e i piccoli immigrati vedono i genitori che hanno perso le radici e sono insicuri, angosciati dal cambiamento. Rivivono quindi a modo loro, con la loro sensibilità, le difficoltà d’integrazione dei grandi. In particolare, sentono molto la spaccatura fra gli schemi culturali arcaici che gli adulti si portano dietro dal Paese d’origine e i modelli più aperti che invece trovano nella nostra società. Per fortuna, solo una minima parte di queste telefonate riguarda una discriminazione subita da parte dei coetanei italiani. Tempo fa era un problema più diffuso fra i piccoli stranieri, questo sentirsi isolati e rifiutati.
Vita: Il giornale della sua città, Il Resto del Carlino, all’indomani del ritrovamento del corpicino di Sara, ha sparato in prima pagina un titolo shock: “Pena di morte? Sì, sì, sì”. Cos’ha pensato?
Caffo: Mi ha rattristato, le richieste a caldo di una pena capitale non rappresentano la strada giusta. Che invece è fatta di risposte positive ai problemi dell’infanzia, senza cedere a sentimenti di insicurezza e di impotenza. E lo dico soprattutto ai genitori, che inevitabilmente dopo fatti del genere si sentono soli nel loro compito di educatori.
Vita: E allora qual è la strada giusta per proteggere i figli senza farli crescere nella paura?
Caffo: Di fronte a un bambino che non solo viene violato, ma addirittura ucciso, per forza sentiamo che i nostri anticorpi non sono sufficienti. Per questo i genitori devono imparare a condividere con altre famiglie i problemi di tutti i giorni, devono sollecitare maggiore attenzione da parte delle istituzioni e soprattutto guardare ai bambini come a soggetti di diritti. Informandoli di tutto, senza allarmismi. Perché bastano anche pochi rapporti qualificati a evitare che i rapporti malati si introducano nella loro vita.

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