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Verso un albo per gli educatori socio-pedagogici: serve davvero?
L'Aula della Camera ha avviato l'esame di una proposta di legge che istituisce un albo per i pedagogisti e un albo per l’educatore professionale socio-pedagogico, che si affiancano a quello degli educatori socio-sanitari creato nel 2018. Un passo che aiuterà a risolvere l'attuale emergenza educatori? Aiuterà gli educatori ad avere in maggior riconoscimento sociale? Risolverà la querelle aperta tra i due profili di educatori? Ne parliamo con Valeria Negrini presidente di Confcooperative Federsolidarietà Lombardia
Un albo per i pedagogisti e un albo per l’educatore professionale socio-pedagogico. È quanto prevede il testo unificato di quattro proposte di legge (la C. 596 a prima firma D'Orso, la C. 659 a prima firma Varchi, la C. 952 a prima firma Patriarca e la C. 991 a prima firma Manzi), giunto la scorsa settimana all’Aula della Camera. In attesa della relazione della Corte dei Conti e di proposte emendative, la proposta di legge sta comunque viaggiando a ritmo spedito: reca disposizioni in materia di ordinamento delle professioni pedagogiche ed educative e prevede l’istituzione dei relativi albi professionali che andranno ad affiancarsi a quello – istituito nel 2018 – degli educatori professionali socio-sanitari. In un contesto che vede una generalizzata carenza di educatori, cosa comporta questo passo? Lo abbiamo chiesto a Valeria Negrini, presidente di Confcooperative Federsolidarietà Lombardia, che guida anche il Forum del Terzo Settore Lombardia.
Pochi anni fa c’è stato un riconoscimento importante del ruolo degli educatori e della loro formazione universitaria, ma subito dopo c’è stata una certa confusione relativamente a definizione, funzioni e perimetro d’azione dell’operatore socio-sanitario e di quello socio-pedagogico. Questa norma risolve la questione?
La prendo da lontano, ma la radice del problema è lì e lì bisognerebbe intervenire. In Italia si è splittata la funzione educativa tra socio-sanitario e socio-pedagogico mentre tanto la letteratura quanto la pratica sottolineano la necessità di integrare il sociale e il sanitario. Ormai è un mantra, una chimera e forse di questa affermazione si è perso ormai anche il significato. La verità è che la persona è una soltanto, che può sommare su di sé fragilità di natura sanitaria e sociale. La letteratura ci dice che spesso le condizioni sociali in cui la persona vive determinano anche le condizioni di tipo sanitario: pensiamo per esempio all'alimentazione, all'impossibilità di accedere ad alcune informazioni sanitarie, ai sintomi depressivi… potremmo fare migliaia di esempi. Avendo però ormai declinato la frase sull’integrazione fra sociale e sanitario come qualcosa che ha a che fare solo con le strutture organizzative, ecco che è nata questa separazione anche sulla figura educativa, che in realtà guarda sempre entrambi gli aspetti. Nessun educatore socio-sanitario ha le competenze per intervenire sulla cura sanitaria, il suo valore è sempre nella costruzione del percorso riabilitativo, dove anche il riabilitativo passa dalla funzione educativa, non da quella sanitaria. Così però abbiamo dato vita ai due corsi di laurea, forse rispondendo più a esigenze delle università che non della realtà delle cose, che risentono anche di una cultura molto forte in Italia per cui il sapere sanitario è sempre visto come il sapere massimo, che non si può mettere in discussione e che è più vero di altri saperi. La prima cosa da smontare quindi è la gerarchia dei saperi, dicendoci che non esiste un sapere sanitario che conta di più di un sapere educativo, né uno educativo che conta del sapere informale di un genitore o di un volontario: sono tutti saperi che in un contesto complicato – molto più complicato di 20 anni fa – dovrebbero agire tutti per la promozione della qualità della vita delle persone.
Una dei problemi evidenziati dagli educatori però è proprio il mancato riconoscimento da parte della società del loro ruolo professionale. Un albo probabilmente aiuta in questo senso…
Non sono contraria all'istituzione di un albo degli educatori socio-pedagogici, anche perché mi rendo conto che in questa diatriba che si era creata sul presunto maggior valore attribuito all’educatore socio-sanitario questi professionisti possano sentirsi forse anche un po’ diminuiti nella loro competenza. Il punto è che questa proposta di legge per come era scritta rischia di creare molta più confusione delle risposte che vuole dare, per questo abbiamo chiesto di essere auditi e siamo intervenuti per cercare di emendare il testo. Chiediamo che questo disegno di legge faciliti e non ostacoli gli educatori e gli enti, che non limiti ulteriormente l'operato degli educatori. Ad esempio aver omesso di inserire il socioassistenziale e il sociosanitario limitatamente agli aspetti educativi tra gli ambiti in cui l’educatore socio-pedagogico può operare significa limitare molto l’operatività della professione. Peraltro sono ambiti già previsti dalla legge, ma sono stati “dimenticati”. È come se chi scrive le leggi non conoscesse come funzionano i servizi sul territorio, non sapesse che le tipologie di servizi sono molto variegate e quindi poter svolgere non solo funzioni educative ma anche socioassistenziali e sociosanitarie limitatamente agli aspetti educativi è fondamentale. Altrimenti si ripeterebbe quella stessa assurdità per cui oggi nella salute mentale possono operare solo educa socio-sanitari, che sono gli unici che possono essere rendicontati: ma in una comunità per salute mentale perché il lavoro di un educatore socio-pedagogico non può essere valido? L’altro aspetto assurdo è che in un passaggio era previsto anche un esame di Stato per l’esercizio della professione, diversamente da quanto previsto per gli educatori socio-sanitari che oggi si iscrivono all’albo solo con la laurea. Non capisco perché l’esame di Stato debba essere richiesto invece agli educatori socio-pedagogici.
Rispetto al contesto di “emergenza educatori” di cui raccontiamo da un anno a questa parte, la proposta aiuta?
Le difficoltà che le cooperative sociali hanno di trattenere o essere attrattivi per queste professioni non credo possa trarre vantaggio dall’albo. Questa situazione piuttosto trarrebbe vantaggio da altre due cose. La prima è che la Pubblica Amministrazione nei suoi gradi decida di dare concretezza ai tanti proclami di apprezzamento del lavoro del Terzo settore: perché dopo i proclami le risorse sul welfare sociale continuano a scarseggiare. Pensiamo invece all’importante lavoro delle comunità educative, al lavoro con i MNSA e con gli adolescenti e i giovani che sono oggi tanto in difficoltà… Occorre una presa di coscienza che serve investire sul welfare sociale, sì, anche risorse economiche: sono risorse che non vanno solo a “riparare” una sofferenza ma sono promozionali per garantire qualità di vita. La seconda sarebbe la volontà di provare e rivedere alcune rigidità del sistema dei servizi, perché abbiamo servizi che hanno un profilo di funzionamento (e quindi standard) nati 20 anni fa, che oggi mostrano un po’ la corda anche per via di un contesto che è cambiato tantissimo… Occorrerebbe quindi anche provare a introdurre nuove regole, meno basate sulla parcellizzazione delle funzioni (il medico può fare questo, l’infermiere questo altro, l’educatore sociosanitario questo e l’educatore sociopedagogico quest’altro) – un dettaglio che aumenta la difficoltà di chi gestisce i servizi – e provando a costruire un ragionamento più focalizzato su budget di progetto a cui concorrono diverse figure professionali. Io non sminuisco né le competenze né le professionalità, ma o queste sono al servizio delle persone o – a volte – rischiano di diventare degli ostacoli. Serve agire verso i singoli individui, ma con la consapevolezza che ciascuno è inserito in una comunità, una famiglia, un territorio e questa dimensione collettiva deve entrare nei servizi e nella logica delle professioni. ll modo di operare di un professionista deve tenere conto di questa dimensione collettiava e non pensare di intervenire solo sull’individuo.
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